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2020: futuro incerto, felicità… da conquistare!

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Sta finendo questo drammatico 2020 ed è il momento di sintesi, indicazioni, buoni propositi e fantasiose speranze. Non è quello che troverete in questo articolo: è di un certo grado di realismo che crediamo ci sia bisogno lì dove alloggia la voglia di un cambiamento radicale. Non si tratta di fermarsi alla “cruda realtà”, non si tratta di accettazione, ma di guardare i processi storici in corso con uno sguardo disincantato e allo stesso tempo curioso per comprenderne le eccezionalità, i salti, le nuove tendenze e le continuità, le linearità. Si tratta di capire ED agire, senza che le aspettative frustrate di scorciatoie più facili conducano verso la strada del disimpegno o peggio della routine militante.

Quanto successo in questo 2020 è un fatto straordinario che facilmente può far viaggiare le menti verso lidi idealisti, se non mistici e religiosi addirittura. Non che ci sia niente di male, fa comunque parte della ricerca di una spiegazione, ma allontana, esteriorizza l’evento, lo rende fatto senza storia, l’eterno presente che l’ideologia capitalista propina ai diseredati. E forse in realtà la cosa più importante di questo fatto è che ci mette scomodi, ci costringe ad essere a disagio con l’eccezionalità di questa esistenza rispetto a quella che c’era prima. In poche parole rimette in movimento la realtà a dei livelli di profondità mai visti nel passato recente o almeno la percezione della realtà che abbiamo dal nostro punto di osservazione occidentale.

Perché sì, altrove, su scale più o meno grandi fenomeni di questo genere sono all’ordine del giorno. Ed è qui la prima scoperta: può succedere anche a noi. Lontani dai wet market di Wuhan, dalle metropoli africane, in fondo il senso di superiorità occidentale, con il suo carico di razzismo, ci aveva convinto che questi fenomeni fossero legati unicamente al sottosviluppo. E invece poi quel virus è il nostro virus, l’abbiamo prodotto noi, delocalizzando i suoi effetti nefasti sempre più lontano dai nostri confini, scavando sempre più a fondo nella montagna, finché è tornato qui. Quanto successo non è il prodotto sovraumano di qualche divinità, ma è materialisticamente figlio della storia del capitalismo, degli imperialismi, della globalizzazione, dell’estrattivismo. Basta questo? Basta dire che in fondo avevamo ragione noi? Va bene per chi vuole godersi lo spettacolo mentre il cinema è in fiamme.

Un’esperienza collettiva di questa portata non si vedeva dalla seconda guerra mondiale e ovunque si sono dati alcuni fatti che dovrebbero interrogarci nella loro radicalità.

Fino ad ora non è esplosa la guerra del tutti contro tutti. Quasi ovunque, persino negli USA, il darwinismo sociale più estremo non è riuscito a sfondare, nonostante ce ne fossero le premesse e gli attori potenziali. La maggior parte della popolazione globale ha dimostrato una indisponibilità ad accettare che le leggi del mercato prevalessero sulla vita dei più deboli. Questa indisponibilità si è mostrata a volte come conflitto dispiegato, a volte come minaccia di un conflitto possibile. In termini generali la presa in carico individuale della salute collettiva è stata frutto più di una responsabilizzazione dal basso che delle misure coercitive dei governi. Vi sono stati embrioni di autotutela, solidarietà e mutuo soccorso informale. Dall’alto sono stati diversi i tentativi di generare scontri interni alla classe, contrapposizioni con nemici esterni ed interni, capri espiatori, ma in termini generali questa strategia non ha funzionato (pensiamo a quanto poco abbia fatto breccia il sentimento anticinese ad esempio). Questo nonostante parte della popolazione sia ormai considerata superflua dal capitale al fine del lavoro (e dei consumi?) Sembra poco? E’ ancora la manifestazione di un’alterità possibile, di un residuo umano di fronte agli imperativi del capitalismo globalizzato.

La crisi pandemica ha evidenziato la crisi della riproduzione sociale sotto il regime capitalista. In ogni suo aspetto, dalla formazione della soggettività, alla cura, ai consumi, alle relazioni, alla salute mentale. La colonizzazione di ogni ambito della riproduzione da parte del mercato ha mostrato la corda. E’ evidente anche ai più strenui difensori del liberismo. Siamo di fronte quindi ad uno scenario neokeynesiano dove questi ambiti torneranno nella sfera del pubblico come mediatore e garante della riproduzione? Difficile a dirsi, più probabile che ci si ritrovi in una situazione in cui i finanziamenti pubblici finiranno per garantire ulteriormente solo la finanziarizzazione e delle forme di workfare. Di fatto sotto traccia all’interno del governo italiano a scontrarsi sono queste due opzioni, una cautamente keynesiana e l’altra che vuole procedere as usual. Eppure tra questi due spazi esiste un universo di soggetti sociali che hanno esperito sulla propria pelle questa crisi della riproduzione e che hanno i saperi, le capacità, la legittimità per esprimere una forza e una direzione politica diversa alla luce di quanto successo (anche se questa non è detto che si tramuti immediatamente in mobilitazione esplicita). Cosa manca? Un contropercorso è possibile?

Greta again? L’annichilimento dei movimenti contro i cambiamenti climatici durante la pandemia ci parla semplicemente di una difficoltà di fase o di una appropriazione delle istanze da parte governamentale al fine della ristrutturazione? Le schermaglie intracapitaliste tra Big Tech e Green Economy da un lato e le classiche produzioni acciaio e carbone dall’altro sembrano per il momento concludersi a favore delle prime con la fine della parabola trumpista (ma non sono da escludere colpi di coda). Il rinculo di questa svolta lo vediamo fin da noi, con un Salvini sempre più aperto alle larghe intese pur di governare e sempre più filo Draghi ed Europa (almeno per qualche mese, poi si vedrà). La transizione ecologica senza modificazioni nel modello di sviluppo sembra ormai entrata almeno a parole nell’agenda internazionale. Attenzione questo scontro di cui abbiamo parlato sopra è stato uno dei più o meno silenziosi punti di frattura dentro la classe. Cambierà qualcosa adesso che la ristrutturazione verde guidata dall’alto ha preso il sopravvento mantenendo estrattivismo e sfruttamento come forme di organizzazione della produzione?

Difficile a dirsi, ci dovremo confrontare con ulteriori meccanismi di cattura ben più incisivi della ridicola maschera verde che Telt prova ad appiccicare sul treno ecocida in Val Susa o le pubblicità di Eni ed Enel in cui anche tu conti. Il recupero di saperi, intelligenze, soggettività da parte capitalista da mettere al lavoro è la vera sfida e dall’altro lato, per noi, la possibilità, affatto scontata, che questa integrazione sia gravida di contraddizioni. Eppure la crisi climatica è lì più che come un orizzonte prossimo come un fenomeno presente materializzato nella pandemia.

Tra crisi e ristrutturazione. Ma la ristrutturazione non passa solo dal tentativo di recupero dei movimenti climatici, anzi lambisce tutte le mobilitazioni sociali che negli ultimi anni hanno dimostrato una certa vivacità e forza. Dai movimenti transfemministi a BLM la cattura è un rischio concreto che solo in parte può essere evitato. Il convitato di pietra di questi ultimi anni, cioè l’esplicito conflitto di classe ha visto alcune punte significative in Asia e delle frammentate, ma comunque importanti fiammate in occidente che spesso sono coincise con i momenti più recrudescenti della pandemia. Spesso abbiamo visto mobilitazioni anche radicali, ma più per la sopravvivenza che con un vero orizzonte politico universale.

D’altro canto invece la forza delle lotte sul campo della riproduzione sociale, in particolare quelle transfemministe e in difesa dei territori si è confrontata con i nodi della crisi pandemica con risultati alterni. Lo scarico ulteriore sugli individui e in particolare sulle donne dell’ingolfamento della fabbrica riproduttiva ha portato da un lato a nuove consapevolezze, mentre dall’altro ha limitato fortemente l’agire. L’individualizzazione del contagio, l’isolamento sociale, la negazione dell’affettività sono stati insieme il carburante per nuove sperimentazioni e il freno ad un’emersione sociale possibile stretta tra la necessità di sopravvivere e l’organizzazione della riproduzione sociale capitalista. La governance del capitale guarda con gioia a questi risvolti e progetta lì dove può la trasformazione degli strumenti di emergenza di questa frammentazione (già presenti in parte), come DAD e smart working in elementi strutturali della divisione del lavoro.

Allo stesso tempo la ristrutturazione passa anche per il tentativo di domare l’altra variabile impazzita degli ultimi dieci anni, cioè il ciclo neopopulista. La risposta pseudo-welfaristica basterà solo in parte mentre in basso ci troveremo ancora di fronte ad esplosioni umorali sempre più contraddittorie e schizofreniche. Non c’è da illudersi, il trumpismo oltre la sua fine, ha già segnato indelebilmente la politica globale e Biden in parte sarà costretto a portare avanti questa eredità. Allo stesso modo la composizione sociale di riferimento del neopopulismo nelle sue versioni nazionali (dai Gilet Jeunes al trumpismo) è tutt’altro che evaporata, e se oggi è in ritirata, domani a seconda di quale compromesso sociale saranno in grado di offrire le elites progressiste (probabilmente ben poco) riemergerà in forme più o meno inaspettate.

Insomma le contraddizioni sul tavolo sono molte, e se la confusione è grande sotto il cielo, la situazione non è poi così eccellente. Ma se si guarda da un altro punto di vista i fenomeni in corso la pandemia ha rimesso in moto processi i cui itinerari sono al momento indecifrabili e già questo è una possibilità rispetto al presente immutabile che ci propone il modello di sviluppo in cui viviamo.

Buon anno e che sia un anno di conflitti e di lotte!

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