A qualcuno (non) piace il Sud
Sottosviluppo permanente. Queste le parole, forti, utilizzate da Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) nel suo rapporto annuale nel quale si evidenzia come dal 2000 al 2013 il Sud sia cresciuto della metà del paria economico d’Europa, la Grecia tanto martoriata da Schauble and company. Desertificazione industriale, crollo del manifatturiero, dei consumi e degli investimenti, settimo anno in negativo consecutivo per il PIL macro-regionale, calo vertiginoso delle nascite e proporzionale boom dell’emigrazione, pressochè sicura impossibilità di agganciare il treno della ripresa economica continentale (se mai passerà).
Le soluzioni proposte sono sempre, sui principali organi di stampa, soluzioni che partono da un assunto esplicitamente razzista per il quale le popolazioni del sud sarebbero incapaci di autogovernarsi, e dove più o meno robuste misure d’emergenza sarebbero necessarie da installare – molto spesso attraverso l’utilizzo di forze speciali di polizia o dell’esercito – per sistemare una volta per tutte la questione; sull’esempio di quanto ad esempio viene attribuito storicamente, in un’immensa serie di falsi storici, a quell’uomo che finì all’incontrario a Piazzale Loreto. Un dispositivo comunicativo che rieccheggia sinistramente quello dell’imperialismo neoliberale degli anni ’90 verso altri “sud” del mondo: laddove il rifiuto della sedicente ed eterodiretta good governance all’occidentale (in tal senso del tutto antitetica ad un “buon governo” territoriale zapatista) comportava l’inaugurazione di qualche intervento “umanitario”. E la sua accettazione un’integrazione in quella spirale di debito e annientamento delle reti di protezione sociale formali ed informali che già allora veniva contestata dai movimenti.
Per analizzare un rapporto impietoso come questo, che interroga le deficienze interessate del nostro governo, si necessita di uno sguardo oltre la contingenza che affronti la questione in termini strutturali. Da sempre in Italia, un po’ sulla falsariga dell’Unione Europea, si è costruito un meccanismo a più velocità, iniziato sin dall’Unità d’Italia. Come gli stati del Nord Europa – che hanno sempre gestito politicamente le leve del comando nell’Unione – hanno perimetrato l’ambito dei PIGS con una semantica razzista e collaterale alla speculazione finanziaria d’oltreoceano (giocando sul meccanismo del debito al fine di drenarne risorse e capacità produttive), così le forze politiche ed economiche del Nord hanno strutturalmente creato un rapporto di subordinazione delle aree centro-meridionali nei loro confronti.
Un paragone con questo processo di “mezzogiornificazione”,vale farlo anche in riferimento ancora all’Europa e al suo processo di assorbimento dei paesi del nuovo allargamento (paesi dell’Ex Europa sovietica), integrati strutturalmente in un rapporto di dipendenza con il centro tedesco di cui sentono duramente le conseguenze. Le politiche di austerità sono da considerare responsabili anche dell’ulteriore aggravamento della devastazione del Mezzogiorno negli ultimi anni, che emerge con ancora più forza proprio perchè di base il tessuto economico e sociale era già provato da nota marginalizzazione.
E’ quindi un combinato tra politiche nazionali storiche e sovranazionali recenti quanto si legge nel rapporto Svimez, e non certo qualcosa di dovuto a lombrosiane caratteristiche sociali. La stessa corruzione da cui personaggi come il prezzemolino Saviano esortano Renzi a liberare gli imprenditori corretti e capaci del sud non è certo caratteristica endogena del Sud ma il perno fondante di ogni ambito di valorizzazione capitalistica: quello della corruzione si ripropone qui ancora una volta, in maniera razzista, come strumento governamentale di controllo e recinzione immutabile di una presunta specificità antropologica del Mezzogiorno.
Lo Stato Italiano ha sempre privilegiato – per quanto con obiettivi risibili raggiunti di competitività con l’Europa del Nord, locomotiva lombarda esclusa – la sua parte settentrionale a quella meridionale, sin dall’epoca della lotta al “brigantaggio“. Sin da quella primigenia ondata repressiva il Sud è stato lasciato nelle mani compiacenti di un intreccio parassitario tra malavita e politica funzionale anche al giorno d’oggi alla creazione di sacche di potere per i vari ducetti che poi si inserivano nelle stanze romane (la parabola di Crocetta che qui abbiamo descritto ne è esemplificativa), così come di opportunità di guadagno per mafie e mafiette varie; basti pensare all’utilizzo fatto dei Fondi Europei, piuttosto che la gestione dei rifiuti nella Terra dei Fuochi o al largo delle coste ioniche.
La questione dirimente è che sviluppo o sottosviluppo non sono situazioni date per chissà quale casualità, ma sono precisi e determinati processi di governo e gestione dei territori. Processi che hanno radici e conseguenze, con i dati sulla demografia tra quelli più importanti da analizzare in questo quadro: di fatto, mentre da un lato aumenta vertiginosamente il numero dei migranti che raggiungono le coste del sud alla ricerca di un futuro migliore di quello a base di guerre e carestie, dall’altro si assiste ad un crollo vertiginoso della popolazione giovane determinata a cercare di costruirsi un futuro nel proprio luogo d’origine.
E’ forse proprio nella possibilità di immaginarsi un modello diverso di convivenza solidale e di creazione di società che si trovano le possibilità di rilancio del Sud, un quadrante nel quale sempre più vettori di mobilità vanno sovrapponendosi. Per la prima volta si accavallano infatti contemporaneamente una nuova migrazione di “italiani” con quella di persone venute da “fuori”, un intreccio inedito e rispetto al quale sarà necessario trovare strumenti di iniziativa politica. Il tutto anche a partire dalle lotte e dai percorsi di solidarietà attiva contro lo sfruttamento degli ultimi nei campi di pomodori della Puglia e nei frutteti della Calabria, che sappia ergersi contro il modello di gestione dei territori portato avanti sia dai vari “sistemi” sia dalle istituzioni politiche che vi vanno a braccetto.
Questo quadro può essere letto andando a braccetto anche con la costruzione di un piano nazionale di lotte contro il sottosviluppo indotto del Mezzogiorno: il decreto Sblocca Italia ha mostrato come dall’Abruzzo alla Calabria, dalla Basilicata alla Campania la soluzione alla povertà economica e alla carenza di opportunità sia implementare un nuovo progetto di devastazione programmata dei territori i profitti del quale andranno però sempre nelle solite tasche. Per non parlare della lotta contro il Muos che negli ultimi anni ha mostrato come il piano da considerare oltre a quello del killeraggio economico sia anche quello della soggiogazione militare che va di pari passo con la devastazione ambientale.
Imprese di trivellazione, servitù militari, commissariamenti politici utili a permettere la creazione di zone franche di profitto per pochi, devastazione delle risorse naturali (che però sarebbero astratti “meridionali” a non saper invece valorizzare, prendendo ad esempio la bellissima costa della Romagna..) che sono modello di sviluppo anche al Nord e che proprio per questo vanno combattute insieme in un unico progetto che faccia dell’eterogeneità delle lotte ed esperienze locali non un limite ma uno spazio di arricchimento dell’agire comune e che vada a porre di nuovo il tema delle risorse e dell’utilizzo di queste; un tema che può essere posto soltanto dall’apertura di un percorso di lotta capace di collocarsi su una scala ampia di conflitto e di lotta alle istituzioni nazionali e sovranazionali.
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