Agricoltura: la fabbrica impossibile
La nostra meta non è mai un luogo, ma piuttosto un nuovo modo di vedere le cose. Henry Miller
Il movimento dei trattori sta facendo discutere in tutta Europa. Ma molto spesso l’interpretazione di questo fenomeno si sofferma sulla superfice: per alcuni è semplicemente un movimento reazionario e negazionista del cambiamento climatico, per altri si tratta semplicemente di una mobilitazione corporativa di un ceto sociale che, sotto l’attacco del grande capitale, è destinato alla progressiva scomparsa.
D’altronde alcune delle rivendicazioni esplicite di queste mobilitazioni sono perlomeno ambigue e chi cerca di sussumere dall’alto questo movimento lo prova ad usare esplicitamente contro le lotte per la giustizia climatica. Al di là della destra negazionista non è un caso che tra le varie rivendicazioni degli agricoltori quelle accolte dall’Unione Europea riguardino l’uso dei pesticidi.
Ma forse non possiamo comprendere queste mobilitazioni senza cercare un nuovo modo di vedere le cose. A volte rischiamo di rimanere ancorati ad una immagine statica e falsificata dell’agricoltura: vediamo l’immagine felice e “naturalista” della civiltà contadina ormai estinta che ci offre la pubblicità della Mulino Bianco, oppure sterco, letame, ignoranza e provincialismo. Entrambe queste raffigurazioni sono ad uso e consumo del capitalismo.
Ma cos’è oggi l’agricoltura nel nostro paese? In Italia le aziende agricole sono all’incirca 1,1 milioni, quasi 500mila in meno del 2010. Di queste il 64% possiedono appezzamenti di terreno al di sotto o pari a 5 ettari, che è considerata la “soglia di sopravvivenza” di un’azienda agricola. Il sistema agricolo italiano attuale è uno strano ibrido: dal punto di vista dell’estensione è agroindustriale solo in una piccolissima parte, mentre dal punto di vista delle tecniche di produzione è significativamente intensivo e spinto verso la monocoltura in alcune aree, più diversificato in altre.
Senza soffermarcisi troppo, il nostro sistema agricolo è il prodotto delle spinte alla modernizzazione neoliberista dall’alto che si sono materializzate compiutamente a partire dagli anni ’80 ed in alcune sue parti significative a basso valore aggiunto è sostanzialmente drogato dai fondi per la politica agricola.
Questa apparente contraddizione tra la modernizzazione neoliberista e i sostegni a fondo perduto mostra concretamente la principale contraddizione con cui si misura il capitalismo in questo campo: la “natura” e l’agricoltura con essa non è scalabile. I cicli naturali sono imprevedibili e sono infiniti i fattori che concorrono alla buona riuscita o meno di un raccolto dunque è quasi impossibile ridurre l’agricoltura ad una fabbrica, spingerla dentro a forza al modello industriale.
La legge divina della “massimizzazione dei profitti” in agricoltura incontra grossi limiti: se si spreme un terreno di ogni suo nutriente questo diventerà un deserto di polvere, come già ormai cento anni fa scriveva Steinbeck in Furore. Esistono dei limiti inagirabili su cui continua ad infrangersi da decenni il soluzionismo tecnologico.
Il capitalismo sta cercando diverse strade per imporre comunque una scalabilità alla natura: una che potremmo definire della “accettazione”, un’altra che potremmo definire del “superamento”. Non si tratta di un bivio vero e proprio, a volte queste due strade sono sovrapponibili, in altri casi la loro scelta dipende dalle caratteristiche intrinseche del bene che si vuole trasformare in merce.
L’accettazione consiste nel prendere atto che al livello della produzione non è possibile scalare la natura, dunque la trasposizione dei beni in merce avviene nelle fasi successive. In alcuni casi vengono prodotti beni “pericapitalisti” nella definizione di Anna Tsing: cioè beni che non sono immediatamente merci, ma che lo diventano nel momento in cui la filiera capitalista se ne appropria e li trasforma attraverso i consorzi, la standardizzazione, la catena del freddo, la logistica, la vendita sul mercato ecc… Anna Tsing deriva questa sua definizione da un bene particolare che consiste in funghi particolarmente apprezzati in Giappone che crescono in Oregon, in Asia ed in altri luoghi, ma questo concetto si può applicare a molti altri beni: il pesce che non si può produrre in allevamento, la selvaggina, vegetali che non si prestano all’agricoltura intensiva. In sostanza la filiera capitalista abbandona almeno in parte il controllo sulla produzione che è troppo soggetta alla variabilità dei cicli naturali e cerca di imporre una scalabilità su un livello più alto della catena del valore attraverso il controllo dei processi di trasformazione e vendita e dei prezzi. Questa strada non viene applicata solo ai beni “pericapitalisti”, ma diventa sempre più comune in alcuni campi della produzione agricola dove l’agricoltore diventa fondamentalmente un “cottimista”, cioé può scegliere i tempi ed i modi di produzione, ha a suo carico le spese per i mezzi, ma non fissa il prezzo che viene fissato altrove. Ciò produce, manco a dirlo, dei livelli di autosfruttamento e sfruttamento enormi nelle piccole e medie aziende per poter rimanere competitivi sul mercato o anche solo per non fallire.
Questa “cottimizzazione” produce inevitabilmente una tendenza alla alienazione rispetto a ciò che si produce e all’ambiente che si ha intorno, ma anche una controtendenza dettata dal rapporto particolare che necessariamente si sviluppa tra l’agricoltore ed i beni che produce nel contesto in cui li produce.
L’altra strada è quella del “superamento” della natura: se i limiti naturali impongono una non scalabilità questa viene superata attraverso dei beni succedanei o delle nuove tecnologie di produzione su cui si può avere l’intero controllo (almeno apparente). Alcuni vegetali prodotti in un ambiente industriale completamente controllato, la carne sintetica sono esempi di questa seconda strada. Metodi di produzione che non si possono applicare ad ogni bene e che non è detto che siano necessariamente più efficienti, ma che permettono al capitalismo la scalabilità. Adesso a noi non ci interessa particolarmente infilarci nella polemica sulla carne sintetica, ma è evidente che liquidarla come uno scontro tra progressisti e oscurantisti è riduttivo, date le implicazioni più generali che apre nonostante al momento sia un bene, come dicevamo, succedaneo.
Che questa sia la via per una transizione ecologica giusta, cioè la creazione di una pseudo-natura in vitro apparentemente totalmente scalabile ci pare quantomeno distopico.
Entrambe queste strade hanno come sbocco l’accentramento del mercato dei beni agricoli, nel primo caso nelle mani di chi controlla il prezzo, nel secondo in quelle di chi può permettersi gli investimenti tecnologici imposti dal “superamento”.
Ma torniamo al movimento dei trattori: se si usa un nuovo sguardo per vedere le cose si può notare che molte delle rivendicazioni degli agricoltori sono in contrapposizione rispetto a queste due vie per ridurre la natura a fabbrica. Vi è un elemento che potremmo definire salariale (rispetto alla cottimizzazione), ma anche un conflitto sui modi di produzione. Al netto della carne coltivata di cui abbiamo già parlato, tra le rivendicazioni degli agricoltori piemontesi di cui abbiamo trattato in questo articolo notiamo la lotta contro la cementificazione del suolo produttivo destinato alle aree industriali, il rifiuto dell’uso dei terreni agricoli per il fotovoltaico, l’opposizione al deposito di scorie nucleari nell’alessandrino.
Tra gli agricoltori scesi in strada c’è una forte ostilità verso il mondo industriale: che si tratti dell’imbroglio del “Made in Italy”, accusato a ragione di essere solo un brand per vendere prodotti le cui materie prime arrivano da un po’ tutto il mondo, oppure dei capannoni della logistica che invadono l’hinterland della grandi città. Altrettanto forte è la rabbia verso le industrie che trasformano le materie prime fornite dai contadini.
Non si tratta di un’ostilità luddista, gli agricoltori di oggi fanno largo uso di tecnologie delle più disparate per diminuire la quantità di lavoro necessario. Si tratta di un’ostilità alla sottrazione del controllo sulla produzione e in definitiva ai tentativi di ridurre l’agricoltura al modello industriale. E questo è un fatto nuovo, ed interessante.
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