Alto tradimento
Forse non c’è bisogno di spiegare le parole di Michele nella sua ultima, brutale e lucida lettera. Chiunque appartenga a quella (alla nostra) generazione ne capirà immediatamente il significato, ci leggerà parte delle proprie esperienze relazionali e lavorative, riconoscerà la sensazione di solitudine, l’insoddisfazione, la profonda perdita di senso.
Nel linguaggio disumanizzato delle statistiche viene tradotto nella precarietà dilagante, in un tasso di disoccupazione al 40% e nell’impoverimento conclamato della nostra generazione rispetto a quella dei nostri genitori. Oppure in quella che viene definita una vera e propria epidemia di disturbi del sonno o di disturbi mentali come la depressione, lo stress post-traumatico e l’ansia. L’Italia è forse uno dei posti messi peggio, ma il problema riguarda gran parte degli stati a capitalismo avanzato.
Le parole di Michele vanno molto oltre la realtà descritta dai numeri, accusano una società che ci riempie la testa con il mito dell’eccellenza solo per poter giustificare la competizione selvaggia, che ci dice che possiamo avere successo solo se sappiamo essere egoisti ed individualisti. Dalle scuole fino al mondo del lavoro ci dicono che i nostri sforzi per aderire a questi principi saranno riconosciuti e ripagati, ma la realtà è che il problema della nostra generazione non è solo un problema di collocamento sociale e lavorativo ma è ben più profondo. Questa società non ha posto per noi e per i nostri sogni, questa società ci ha già accantonato.
La nostra generazione è costretta a vivere con una sensazione di costante inadeguatezza, in constante competizione, con la paura di non essere al passo con le aspettative o con le ultime trasformazioni richieste in termini di formazione, lavoro e rappresentazione di se stessi. Parallelamente cerchiamo di sfuggire al deserto relazionale tramite i social network, rimanendo intrappolati nelle reti dell’economia dell’attenzione che ci espropria di soggettività e tempo per trasformali in flussi di capitale. Eppure la sensazione di essere soli o esclusi non ci abbandona mai.
Viviamo costretti sul filo del rasoio. Ogni imprevisto, ogni delusione e frustrazione può farci cadere nel baratro della perdita di noi stessi, della nostra identità, del senso della nostra vita. L’ideologia liberale addossa le responsabilità dell’insuccesso al singolo individuo, alle sue carenze in competitività, in formazione, in capacità di vendersi sul mercato, ma così facendo nasconde l’opprimente realtà della società capitalistica e delle gerarchie di classe. Il gesto di Michele è stato lucido. Chi dice che abbia scelto la strada più facile, come a volte si usa in questi casi, lo fa con una certa dose di superficialità. In realtà Michele ha scelto l’unica strada che ha trovato per affermare il proprio rifiuto e la propria libertà.
Se non vogliamo arrenderci a questa situazione, se vogliamo che le strade possibili per affermarsi siano diverse, la nostra generazione deve prima di tutto riconoscere di avere un problema collettivo e come tale affrontarlo. Nel riconoscere un problema comune, nel ragionare insieme su come risolverlo, nel cospirare per ribellarsi sta la possibilità di superare la solitudine, di (ri-)trovare un tessuto relazionale solido e un senso alla propria vita. Dobbiamo affermare collettivamente il nostro diritto ad esistere, ad essere appagati e felici. Imporlo se necessario, ne va della nostra vita. Se questa società non ce ne offre le possibilità, allora questa società è sbagliata e dovremo lottare per cambiarla.
Nella sua lettera Michele fa una cosa importante: riduce all’osso e individua il nemico. Il ministro del lavoro Poletti ha la responsabilità di questa situazione. Lui ha promosso leggi che aiutano i padroni, che hanno aumentato la nostra precarietà e il nostro sfruttamento. Certo, i veri problemi si chiamano società capitalistica, competizione, impoverimento, retorica dell’eccellenza, ma negli ultimi 4 anni è il ministro Giuliano Poletti che se ne è fatto garante firmando le leggi che ci schiacciano nell’incertezza o nella disoccupazione senza fine.
E’ difficile parlare su di una vita (o una morte) quando questa per un motivo o per un altro entra nel tritacarne mediatico. È difficile perché lo spazio della presa di parola è saturato, occupato dalla retorica pubblica con tutto il corredo di strumentalizzazione, drammatizzazione, utilizzo abusivo del senso di un evento che questa comporta. Così è lo stesso passaggio dall’evento singolare al piano collettivo del discorso che finisce per essere investito del colore dubbio di un politicismo, di una strumentalità cinica. Ma sappiamo che un pezzo, seppur piccolo, di questa morte ci appartiene: non come appartiene al cronachista, al politicante o al lontano compaesano di Michele, ma con quella comprensione dovuta alla condizione comune. Ci appartiene, è la nostra: dobbiamo deciderne il senso.
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