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Anche il nuovo Ulivo odia i giovani!

L’81% di NO al referendum dello scorso 4 Dicembre ha segnalato in maniera diretta l’enorme distanza tra le fasce giovanili della popolazione e le istituzioni, incarnata nel profondo e roboante rifiuto dell’ipotesi renziana di rinnovamento dei poteri dello Stato. Un rifiuto che non si accompagnava però contestualmente all’emersione di pratiche di movimentazione sociale, se non per qualche sparuta eccezione troppo debole per riuscire anche solo ad accennare ad un processo ricompositivo.

Troppo pressante il combinato disposto dalla scure della precarietà, dal doppio ricatto economico e morale nei confronti delle famiglie, ma anche – perchè negarlo – dalla questione repressiva. Elementi che entrano in gioco quando troppe volte le lotte sociali, per errori tattici o per rigidità assoluta della controparte, non sono riuscite ad ottenere un elemento di vittoria. La lotta non paga, è questo il substrato alla base del cinismo nichilista che si è manifestato nelle urne del 4 Dicembre, dove però si è contestualmente affermato un rifiuto che non poteva rimanere inosservato.

Il distacco tra corpo giovanile e istituzioni e partiti non poteva infatti non avere riflessi sul mercato elettorale. Il PD odia i giovani, è un fatto acclarato, e le dichiarazioni in serie di Poletti (citato anche nella famosa triste lettera di Michele) ben descrivono questo sentimento di disprezzo e paura, che è problematico in un contesto dove si avvicinano le elezioni e dove le affermazioni di Brexit e Trump non fanno fischiare buoni venti per chi rappresenta l’establishment.

Un Partito Democratico in profonda crisi, con una struttura ormai totalmente liquida e in via di trasformazione nel Partito di Renzi, si è accorto dell’emorragia di consenso e ha provato a correre ai ripari. Finge un cambio di rotta, simula scissioni in pezzi differenti che servono solamente a cercare di intrappolare qualche ingenuo deluso all’interno della stessa gabbia che si finge di rompere.

Serve un cambio della guardia, più in termini cosmetici che ovviamente di strategia politica e di soggetti sociali di riferimento. Pisapia viene così incoronato da eccellenti sponsor – ad esempio Prodi – come nuovo federatore del centro-sinistra, ma il suo passato di sindaco della Milano del modello Expo rende bene l’idea di quali possano essere le sue idee in tema di lavoro e precarietà, uno dei temi su cui i giovani hanno più fortemente puntato il loro NO al referendum.

A Bologna, pochi giorni dopo il 4 Dicembre, si trovavano intanto il sindaco felsineo Merola, lo stesso Pisapia e il sindaco cagliaritano Zedda a lanciare l’ipotesi di un nuovo centro-sinistra, di un campo progressista alternativo al PD e capace di intercettare lo scontento diffuso verso la figura di Renzi. Un attacco al PD funzionale solo a fare da stampella al PD. Da un lato si agisce la simulazione di un rinnovamento del PD, con Emiliano e Orlando che si pongono da rottamatori del rottamatore e si dicono aperti ad un’alleanza a sinistra; dall’altro si lancia un campo progressista che – per non irritare i poteri economici – non nasconde di voler ambire a partito “responsabile” e di governo, e non disdegna sfratti, sgomberi, repressione e criminalizzazioni delle lotte sociali in un quadro dove ogni tema politico è definito a priori solamente come elemento di ordine pubblico.

Non a caso, mentre si lanciava in roboanti dichiarazioni sulla necessità di tornare a sinistra, Merola si è distinto per permettere lo sfratto di famiglie di 60enni con problemi di cuore, propone caserme al posto di centri sociali, definisce “quattro gatti” migliaia di studenti in lotta. E’ il modello emiliano che ancora una volta emerge a proposta sistemica di nuovo equilibrio. La pax emiliana funziona da sempre tramite l’accordo tra cattolici e il ceto che viene dal vecchio PCI. Con la crisi del renzismo, è questo modello che si tenta di riaffermare per costruire il governo di stabilità prossimo. Dietro il ceto politico di rappresentanza ci sono Unipol, LegaCoop, Acli, Cisl, Cgil, pezzi significativi di Confindustria e nuova alta imprenditoria italiana.

Il così detto “nuovo Ulivo” che dovrebbe avere a sinistra il “campo progressista” di Pisapia con ai bordi frange di rappresentanza dei vecchi corpi intermedi, nonchè il mondo politico e di rappresentanza di Casini, sta dunque prendendo forma. Dal punto di vista delle lotte, questo si traduce nella legittimazione dell’indicazione politica di aggressione brutale e violenta della questura – e giudiziaria tramite la Procura – sui segmenti di classe meno garantiti, insolventi ed esclusi dalla sempre più ridotta mobilità sociale.

La strategia dei “progressisti” sulle questioni sociali è dunque quella di liberalizzare il manganello ad ogni piè sospinto, dando al Questore i poteri di Podestà, permettendo ai Procuratori di rispolverare i reati associativi contro le vertenze, dando carta bianca al Rettore di portare avanti il dialogo manganellando studenti in una biblioteca. L’aggressione contro gli studenti e le studentesse bolognesi è interna a queste esigenze politiche di costruzione del nuovo Ulivo, l’elogio dello sfondamento in una biblioteca pubblica del settimo reparto è un segnale chiaro di affidabilità di questo progetto.

Anche il neo-Ulivo odia i giovani, perchè sono il suo più grande incubo in quanto possibili elementi di traino dell’opposizione al suo progetto di ristrutturazione degli equilibri politici.

L’ipotesi di governo di stabilità neoulivista passa così per i fatti di Bologna, ma chiama in causa tutte le forme dell’autorganizzazione sociale e del sindacalismo di base a ritenere i fatti recenti qualcosa di proprio, visto le ovvie e scontate tendenze ultra reazionarie che il regime-change post renziano all’emiliana promette di avere. La giornata di solidarietà dello scorso 16 febbraio ha simboleggiato un primo momento di generalizzazione delle parole d’ordine degli studenti bolognesi, ma non è ovviamente sufficiente per poter pensare a qualcosa di più; l’importante è ad ogni modo, comprendere le dinamiche fondamentali che hanno permesso lo scoppio della lotta di questi giorni.

Se un senso ha ragionare della questione microfisica del tornello, è infatti solo riguardo alla – fondamentale – questione del metodo: trovare in ogni contesto il tornello su cui si annidano le contraddizioni di una generazione significa capire quali sono le forme di vita attaccate dai processi di rinnovamento e di attacco capitalistico e agire la rigida resistenza contro di queste. E’ questo metodo che può permettere l’allargamento su un piano più ampio della mobilitazione bolognese, oltre ovviamente alla capacità di saper surfare sull’onda mediatica tentando un effetto-domino.

A far saltare il tappo è stata la lotta studentesca sul tema del libero accesso ai saperi e per un modello di città differente, incarnata nell’opposizione al tornello. Se in migliaia negli scorsi giorni hanno respinto questa proposta politica per Bologna, questo è successo a partire non tanto dal suo delinearsi in termini teorici, ma nella materialità della sua espressione plastica.

La variabile generazionale con le sue rigidità e voglia di riscatto per un precariato giovanile più massacrato e umiliato in questi ultimi anni è stata inaspettata e ha mandato in tilt i burattinai dell’operazione neoulivista, con l’incredibile livello di ossessione che esponenti noti e “autorevoli” del PD hanno mostrato nei confronti del CUA, che ha saputo costruire giornate davvero importanti di conflitto in una fase davvero gelida dal punto di vista dei movimenti.

Quello di altro che può scaturire è nell’abilità politica delle avanguardie di lotta e soprattutto, della capacità di tradurre in obiettivo politico il processo di movimento che sembra essere scaturito. Allargando la lotta, indicando i vecchi e i nuovi nemici, spingendo sull’acceleratore senza allo stesso perdere lo sguardo su una situazione che rimane difficile per i movimenti ma nella quale si intravedono perlomeno i primi segni di riscatto.

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