Brexit, non sfida generazionale ma conflitto di classe e dentro la classe
Una delle chiavi di lettura rispetto alla questione Brexit più (ab)usate negli ultimi giorni dalle forze europeiste dei paesi dell’UE orfana della Gran Bretagna (Germania, Francia, Italia, Spagna) è stata quella che ha segnalato una contrapposizione netta tra un voto al Leave più ad appannaggio delle fasce più anziane della popolazione e quello al Remain invece di quelle più giovani.
Una retorica andata ben oltre la dimensione sociologica, e utilizzata da parte del campo europeista per giustificare un sostanziale “arretramento culturale” dell’ipotesi di invertire quello che sembrava uno scenario irreversibile di approfondimento dei legami costituenti l’Unione Europea su molteplici piani del comando.
L’effetto denigratorio è evidente, ed è mirato ad ottenere un rilancio dell’opzione europeista a partire dalla squalificazione di chi ha votato Leave e di chi possa essere considerato ostile, anche solo in parte, al progetto europeo. Il voto in Spagna sembra ad esempio aver subito il contraccolpo del referendum britannico, per informazioni chiedere a Unidos Podemos.
La realtà ci parla invece di uno scenario ben diverso, che è stato non a caso volutamente occultato da chi ha sposato e diffuso la teoria del conflitto generazionale: uno scenario in cui è lo scontro tra centro e periferia socioeconomici a farla da padrone, uno scenario eminentemente di classe rispecchiato nella fortissima polarizzazione sociale espressa dalla consultazione.
Intendiamoci: non bisogna fare l’errore, purtroppo accennato anche in alcune analisi andate oltre lo specchietto per allodole del discorso dell’età, di identificare il voto per il Leave ad una ripresa del conflitto di classe espresso attraverso lo strumento elettorale.
Il voto per il Leave, va sottolineato cento volte ancora, è piuttosto un voto di rabbia e disperazione su cui hanno ben saputo soffiare esponenti come Farage e Johnson, che nelle prime dichiarazione post-voto si sono già rimangiate idee come lo spostamento al Serivizio Sanitario Nazionale dei soldi precedentemente utilizzati come trasferimenti monetari all’UE e che non smetteranno di soffiare sul fuoco dell’odio razziale che negli ultimi tempi in Gran Bretagna ha fatto alzare il numero delle aggressioni a sfondo razzista verso i migranti, specialmente se musulmani.
Eppure è evidente dai dati come non ci sia alcuna dinamica davvero rilevante sulla quale si possa fondare un approccio “generazionale” all’analisi del voto.
C’è ad esempio chi ha fatto notare come il sondaggio su cui si era effettuata la maggior parte delle analisi era in realtà stato fatto prima del voto, tra il 17 e il 19 giugno e su un campione di sole 1652 persone.
C’è chi ha sottolineato come il voto, anche in città come Londra (ma non solo: la stessa situazione si è verificata in città operai come Manchester, Liverpool, Leeds) sia stato diviso su basi territoriali con il Leave forte nelle periferie e nei quartieri più storicamente della working class e recentemente passate dal voto al Labour a quello verso l’UKIP, e il Remain trionfante nei centri borghesi dell’economia e della finanza delle città.
Infine, chi ha sottolineato con maggiore forza il fatto che in realtà dei giovani a votare ci è andata una parte davvero minuscola, e che quindi andrebbe sottolineato con molta più forza e interesse analitico il tema della sostanziale indifferenza espressa nell’astensionismo.
In poche parole, quella del voto “Erasmus” contro il voto “Nazionalista” è una enorme sciocchezza, finalizzata da chi la utilizza a dare una patente di freschezza e innovatività ad una UE che non trova contro di sé anziani retrogradi e ignoranti a cui magari anche togliere il diritto di voto (lasciando ora stare qualunque riflessione sull’utilità di questo strumento), bensì una massa sempre più in espansione di soggetti sociali, trasversali in quanto a dimensione anagrafica, che vedono in questa uno dei tanti problemi di un periodo difficile e che approfittano del voto per esprimere un rifiuto, per quanto disperato, alla loro condizione.
La realtà è di una UE sempre più evidentemente invisa a chi ha subito la potenza distruttrice dell’applicazione dei suoi Trattati e della sua legislazione, trasformandosi da speranza di pace e progresso in uno strumento di impoverimento e disciplinamento sempre più trasversale all’età e basato sull’odio e il disprezzo verso le classi subalterne. Valori tipicamente europei in nome dei quali è sempre meno sopportabile farsi continuamente vessare.
La rottura a destra, nel nome delle bestialità omicide di Farage e Johnson, è sicuramente un dato pericoloso proprio per il noto adagio storico che ha visto il proletariato europeo a volte appannaggio di movimenti progressisti e rivoluzionari ma altre volte, ahilui, di traditori reazionari delle istanze di cambiamento.
E per questo va anche colta in relazione a quanto successo in Grecia con il tradimento del governo Tsipras nei confronti dell’altro referendum che avrebbe potuto avere un effetto dirompente sull’Unione Europea: quello in cui la Grecia disse no all’ennesimo memorandum anche grazie alla mobilitazione di decine di migliaia di giovani che trainarono il paese prima alla vittoria di Syriza e poi all’OXI, facendo intravedere lo spazio politico di un primo rifiuto all’UE di Merkel e Schauble.
Un precedente di messa in gioco giovanile che dovrebbe farci riflettere sul concetto stesso di generazione Erasmus in movimento. Se c’è una generazione tradita che si mette in movimento, questa non si è vista in Gb bensì in Francia nelle lotte contro la Loi Travail: nelle difficoltà del rapporto con il sindacato, nella determinazione ad affrontare la polizia e le difficili pratiche del blocco dei flussi, la composizione giovanile francese (tradita sia nel centro che nelle banlieues da promesse diversificate e unite solo dal fatto di essere costantemente disattese) si è esposta come refrattaria ai processi di impoverimento di cui il provvedimento di Hollande ed El Khomri è evidentemente dinamo.
Mantenendo la lucidità di sfuggire alle sirene entrambe nemiche di europeismo a prescindere e neo-nazionalismi d’ogni tipo e ideologia, abbiamo allora la necessità di approfondire il radicamento nelle periferie socioeconomiche dei nostri territori, affiancando alla pratica della lotta sui bisogni la costruzione passo passo di un immaginario differente.
Un immaginario consapevole delle difficoltà che costituiscono le vite di una periferia sociale sempre più impoverita, la quale ondeggia tra l’espressione (dove può del rifiuto) e le sue necessità di galleggiamento e di sopravvivenza con i compromessi che ne derivano; ma nella quale procedere ad una risignificazione di parole come corruzione, migrazione, povertà per costruire una risposta alla possibilità che proprio quelle aree che oggi esprimono il rifiuto possano indirizzarsi dalla parte sbagliata…
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