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Che cos’è una resistenza popolare

Quest’anno il tradizionale campeggio del Comitato di Lotta Popolare di Bussoleno e del Csoa Askatasuna ha vissuto una fase nuova e diversa rispetto al passato, producendo uno dei campeggi No Tav più partecipati e attivi degli ultimi anni. Dopo la resistenza di giugno, l’esperienza della Libera Repubblica della Maddalena e la manifestazione del 3 luglio il movimento sentiva la necessità di riflettere e condividere, analizzare la fase e proiettarsi nelle sfide che lo attendono con l’arrivo dell’autunno. Molte cose si potrebbero dire sulle due settimane appena trascorse, animate da assemblee, dibattiti, concerti, attacchi al fortino militarizzato e marce nei boschi della valle; vorremmo però qui concentrarci su alcuni nodi problematici che abbiamo riscontrato, convinti che tacere sui limiti soggettivi dei movimenti non sia d’aiuto allo sviluppo del conflitto sociale, e che la dialettica aiuti la soggettività rivoluzionaria e ribelle alla comprensione del conteso politico e sociale in cui si trova ad operare.

Ci è sembrato che durante il campeggio in alcuni abbia prevalso, come in altri casi, una rappresentazione comoda ma distorta della realtà, tutta volta a giustificare atteggiamenti di intonazione autoreferenziale, che soltanto grazie alle indicazioni chiare e determinate dell’assemblea non hanno trasformato due settimane ricche e conflittuali in una serie di difficoltà di cui un movimento pesantemente sotto attacco non avrebbe avuto bisogno. Proprio il principio della condivisione assembleare e della decisione collettiva sono apparsi estranei ad alcuni individui che hanno partecipato (piuttosto passivamente, peraltro) al campeggio. Non ci riferiamo ad un’area politica strutturata, giacché sappiamo che l’intelligenza e la maturità, ma soprattutto il desiderio autentico di fare del male al capitale (non con le parole o con la mera testimonianza, quand’anche “radicale”, ma con i fatti) sono rintracciabili, anche se con diverse gradazioni, in qualsiasi cultura politica, sensibilità o identità che si fondino sull’antagonismo. Ci riferiamo piuttosto a singoli o a gruppuscoli di affinità spontanea, interessati ad un’infruttuosa riproposizione di modelli di comportamento importati schematicamente dalle peggiori esperienze metropolitane.

L’idea, espressamente difesa da alcuni di questi soggetti, che l’individuo è sovrano su ogni sua azione e non deve sottomettersi a nessun ambito collettivo – neanche quello orizzontale e popolare delle assemblee – rappresenta l’antitesi della cultura e dell’attitudine del movimento notav, e come tale è stata e sarà sempre trattata. La Val Susa non è il Luna Park dove trovare quell’appagamento che non si trova sui propri territori, nei quali proprio l’individualismo e l’ideologismo più biechi hanno impedito la costruzione di lotte altrettanto massificate; né le persone che vivrebbero sulla propria pelle gli effetti dell’opera sono disposte a cedere un millimetro del percorso di opposizione all’alta velocità a chi non ha neanche l’umiltà di volersi confrontare con loro (e, una volta avvenuto il confronto, adeguarsi a sintesi maturate collettivamente). Il frequente richiamo, da parte di valligiani durante il campeggio, ad un’apparente distinzione tra “gente della valle” e “gente che viene da fuori” non ha avuto quel significato polemico o, peggio, identitario che qualcuno vi ha voluto ravvisare. I valligiani sono felicissimi di avere solidarietà italiana e straniera e lo hanno detto e mostrato in tutti i modi possibili. Questo non vuol dire che siano inclini ad accettare lezioni di strategia politica da chicchessia, e tanto meno di radicalità, soprattutto se si tratta dei soliti prodotti preconfezionati, verità assolute non negoziabili di fronte a niente e nessuno.

Qui è in gran parte il nocciolo della questione: perché c’è ancora un residuo politico, in Italia e in Europa, che non è in grado di dare un senso compiuto, che non sia retaggio delle peggiori definizioni scolastiche, a parole quali “libertà”, “autorità” o “potere”. La libertà non è mai soltanto libertà “da” qualcosa, ma sempre anche la possibilità di influire sulla realtà; e il potere non è identificabile con lo stato, ma risiede anche nelle mostre teste e nelle nostre mani, se vogliamo avere la libertà di usarlo – e di decidere come e quando usarlo. L’individuo che decide singolarmente, senza mediazione collettiva, come agire nel movimento, esercita una forma di autoritarismo su tutti coloro che subiranno le conseguenze della sua azione: sovradetermina il movimento come un piccolo dittatore, e porta alle estreme conseguenze il meccanismo della delega, convinto di sapere, lui solo, che cosa è meglio per tutti. La potenza del movimento è tale in quanto forza collettiva, di massa, capace di intercettare ed assumere le istanze di un gran numero di persone, ed indirizzarle in questa o in quell’altra forma o pratica. E’ fin troppo noto quanto la retorica del gesto individuale si esprima in atti di nessun impatto politico o “militare”, e come la situazione del dissidio con i compagni sia regolarmente voluta e cercata da chi non ha a cuore la collaborazione e la complicità politica, ma la chiacchiera da bar sulla propria volontà frustrata o sui comunisti cattivi.

Il movimento notav non è, come qualcuno erroneamente crede, la sommatoria di molte anime. Quelle erano cose proprie dei vecchi movimenti “no global”, che proprio nel malinteso tentativo di sommare componenti diverse senza una vera condivisione progettuale si sono scontrati con le peggiori lacerazioni. La condivisione delle scelte che qui difendiamo non è aprioristica, né astratta. Non siamo nuovi alla delegittimazione attiva di decisioni prese da organi che non ci rappresentano (quand’anche “di movimento”) e siamo sempre stati pronti ad accettare le conseguenze di tali scelte di  delegittimazione, anche in piazza (contrariamente a chi prima fa il gradasso, poi va a piagnucolare in giro delirando sulla presenza di improbabili “stalinisti”). Ma ci chiediamo: cosa c’è da delegittimare in Val Susa? Perché le assemblee popolari, create come contropotere resistente dalla popolazione, non dovrebbero essere rispettate? Qui non c’è un Social Forum che demonizza i “black bloc”, ma la gente verace che risponde allo stato: “siamo tutti black bloc!”. La contaminazione è al rialzo: non è chi è più arrabbiato a trovare miti consigli nel “democratico” e nel “savio”; è la gente mite, che poco sa di ideologia, a comprendere la necessità di uno scontro a lungo termine.

Un elemento che rischia di generare fraintendimenti è anche quello della comunicazione. Riteniamo importante constatare tutti insieme che, ad oggi, gran parte della forza dei movimenti, anche insurrezionali, a livello mondiale, risiede proprio nella critica e nella negazione pratica del monopolio dell’informazione da parte dei capitalisti e dello stato. Filmare, riprendere, fotografare e diffondere gli eventi è uno strumento essenziale, oggi più che mai, della lotta. Non ha alcuna importanza che ci piaccia o no, è un elemento materiale del conflitto contemporaneo, che fonda sulla circolazione di diverse versioni dei fatti la possibilità di produrre isolamento o allargamento delle mobilitazioni sociali. Allora sostenere che gli organi di stampa devono restare aprioristicamente fuori dalle manifestazioni, che i giornalisti non possono farvi ingresso, o addirittura – ciò che consideriamo completamente inaccettabile – che i reporter indipendenti o i compagni stessi non possano usare videocamere e macchine fotografiche significa fare il gioco dei magnati dell’informazione avversaria che si dice così tanto di odiare. Anche se è ovvio che è necessario tutelare chi protesta sotto il profilo penale, occorre trovare e condividere metodi e soluzioni che permettano alla nostra battaglia sociale di essere anche una guerra di informazione.

In termini generali, bisogna capire che la lotta della valle non è fatta dal punkabbestia che per inclinazione esistenziale alza il dito medio alla polizia, quasi a sanzionarne l’esistenza ancora per millenni a venire; è fatta dalla gente che paga le tasse e porta i figli a scuola, che studia o che prega, che lavora e che sogna, immersa in un’avventura che ha sconvolto la vita a tutte e tutti. Per questo la Val Susa non fa paura soltanto a Berlusconi e a Maroni, ma allo stato tutto, da Vendola a Bersani, da Di Pietro a Fini. Questa lotta è fatta di alti e di bassi, di masse per strada e momenti sofferti, anche di notti in cui si è da soli a fare la guardia. Ci sono le giornate della rabbia e quelle in cui di scena è la dignità delle famiglie, l’allegria delle nonne e dei bambini. Chi non lo capisce non ha semplicemente frainteso il movimento notav, ma un po’ tutto crediamo, fino a quel minimo di intelligenza militante che la costruzione di un futuro senza capitalismo richiede. Occorre mettersi in discussione, comprendere che le persone al nostro fianco sono una risorsa, non un nemico: in tanti possiamo fare del male, ma da soli, anche fossimo armati di astronavi, non usciremmo dal solito ghetto (ultima risorsa che un sistema decrepito può usare contro la coagulazione del dissenso). Le scelte che facciamo sono ispirate da una necessità di forza e di vittoria, e sovente si mostrano più efficaci di quelle di chi sembra rifugiarsi nella mera testimonianza: era giusta l’intuizione di chi, il 3 luglio, ha preferito raggiungere la Ramats da Exilles, riuscendo a portare alla battaglia 2.000 persone (coscienti, ovviamente, che la marcia da Exilles a Chiomonte e da Giaglione a Clarea fossero fronti altrettanto importanti della stessa giornata) rispetto a quella di chi scelse di trovarsi lassù in 200.

La Val di Susa sarà ancora attraversata da mesi o anni duri e faticosi: lo è tutt’ora, in pieno agosto,  mentre si costruiscono le case sugli alberi o si rincorrono le truppe d’occupazione fin sotto i loro alberghi. La Valle accoglierà a braccia aperte la solidarietà italiana e internazionale contro le truppe di Maroni e il sistema-paese di Bersani e di Berlusconi. Ma il più grande aiuto alla Valle sarà la riproduzione del conflitto dal nord al sud dell’Italia, dalla metropoli alla provincia, nelle scuole e nelle fabbriche, nelle curve e nei quartieri: scomporre pezzo per pezzo l’ingranaggio del capitalismo mafioso in salsa italica, e del capitalismo finanziario in salsa globale, a partire dalle nostre strade. Anche la pressione militare dovrà alleviarsi sulla valle se ogni città sarà attraversata dai movimenti e dal conflitto! Per ottenere questo risultato, tutte e tutti dobbiamo imparare l’umiltà, che è sempre sinonimo di temperanza, e scrollarci di dosso qualche tonnellata di ideologia (anche chi crede di non averla). Rinfrescati dall’aria pura del conflitto montano, anche nelle città si potrà forse invertire la tendenza all’autorefernezialità e all’isolamento sociale tanto di chi crede ancora che il cambiamento venga dai partiti e dalle istituzioni, quanto di chi pensa che il primo nemico sia l’assemblea del movimento, che in realtà è un luogo di espressione politica libero dalla legge e dalle costrizioni dello stato: quello in cui si determinano i percorsi collettivi.

Network Antagonista Torinese (askatasuna-murazzi-cua-ksa)

 Comitato di lotta popolare no tav – Bussoleno

 

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