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Che dolore, Rémi

Domenica 26 si apprende della morte di Rémi Fraisse, un giovane di 21 anni, deceduto in una giornata di protesta contro il progetto della diga di Sivens.

Le circostanze e le cause della sua morte, in un primo momento definite incerte e misteriose, cominciano a venire alla luce confermando il legittimo sospetto di molti/e presenti sul luogo e sollecitando una questione più generale riguardo le responsabilità politiche della polizia francese e, dunque, dello Stato. Secondo l’inchiesta aperta sui fatti, Rémi è morto a causa di un’esplosione durante gli scontri e, secondo i/le testimoni il suo corpo privo di vita sarebbe stato “fatto da parte” dalla polizia stessa per non “intralciare” le operazioni di attacco contro i manifestanti. In questo contesto, la timidezza della politica istituzionale nel denunciare il fatto assume caratteri inquietanti. Ci si appella a ogni sorta di competenza tecnica al fine di aggiustare il meglio possibile la ricostruzione dei fatti.

La domanda che rimane inevasa è quella della responsabilità politica, della scelta politica, nascosta dietro una supposta logistica dell’ordine pubblico. Le piroette retoriche attraverso cui la morte di un ventenne nel corso di operazioni di polizia vengono ricondotte nell’orizzonte dell’accidentalità non risparmiano nessuno, né a destra né a sinistra. Secondo Hollande spetta al diritto stabilire cosa sia successo e chi ne debba rispondere. Della decisione sulla vita umana, se ne fa una questione di procedura tecnica. Ma il diritto non può decidere niente.

La questione è mal posta. Non si individuerà un atto mortale, la mano che ha ucciso e nemmeno la prova di un’intenzionalità. Significa che Rèmi è morto per caso? Significa che la Republique può riunirsi in un comune pianto di lutto senza individuare una responsabilità politica? Che l’obiettivo sia questo – l’orizzonte è pur sempre quello di una cultura che ha pietà per la morte purché questa non interpelli nessuno – sembra piuttosto scontato. La logica discorsiva è paradigmatica, non contingente e a maggior ragione occorre contrastarla. Si può davvero accettare la morte in un contesto di mobilitazione politica (e qui a essere interpellato/a non è solo chi sceglie l’impegno, l’attivismo, la militanza, la “parte” contro un amorfo quanto ideologico “tutto” che si usa chiamare “società democratica”, ma anche la cosiddetta “società civile”)? Se qualcuno/a cadesse e battesse la testa mentre cerca di trovare qualche molecola di ossigeno accecato/a dai lacrimogeni, di chi sarebbe la responsabilità politica? La caduta sarebbe semplicemente un fatto, non vi è dubbio a riguardo. Ma non lo sarebbero i lacrimogeni. Se il corpo armato dello Stato non esita ad usare la propria violenza contro coloro che esprimono dissenso e conflitto rispetto a una grande opera (in questo caso una diga) sino a produrre esplosioni potenzialmente mortali – e qui dalla potenza si è passati all’atto – non è possibile riconoscere un’intenzionalità di morte latente?

Se la morte di Rémi è un caso, allora è un caso anche che altre volte sia dato di tornare a casa interi. Morire per sfortuna e salvarsi per fortuna è ciò che accade in una guerra. Questo è il grado di violenza di cui lo Stato vuole farsi carico amministrando i flussi di capitale di cui le grandi opere sono i catalizzatori piuttosto contingenti? Basta per carità con la finzione della discussione sull’utilità e l’inutilità di queste opere, con i paroloni inutili come progresso e crescita, quando più di vent’anni di analisi mostrano che c’è una ristrutturazione economica in corso – che viene chiamata “crisi” – e in cui le grandi opere, al pari di altri dispositivi, funzionano come strumenti di questa ristrutturazione. Troppo semplice? Beh, è così, la realtà può essere semplice, come la morte di un ragazzo.

Ben vengano le indagini, i particolari, le testimonianze. Mai e poi mai bisogna ammettere che il racconto della realtà sia grossolano e sommario. Ma basta con la complessità come alibi, alcune scelte sono nette o non sono. Come quella di prendere una posizione quando la morte veste la divisa. Non si può morire in manifestazione, mai. Possiamo considerarlo un principio democratico basilare come la tanto amata dialettica parlamentare o la materialità della vita non è più ammessa nella miseria delle nostre democrazie nemmeno nella sua forma più elementare, cioè come diritto ad essere preservata anche in una posizione (o in una situazione) di conflittualità?

Che dolore, Rémi.

Paris, 28 octobre 2014

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