Chi ha bisogno dello Sciopero Generale?
Lo sciopero generale del 12 dicembre convocato dalla CGIL con l’adesione della UIL arriva tardi, a giochi fatti. L’indizione dello sciopero è stata prima evocata, poi simulata e infine rinviata dal 5 al 12 dicembre. Nel frattempo, il 3 dicembre, il Jobs Act passava al Senato con voto di fiducia mentre l’organizzazione della mobilitazione sindacale veniva frammentata su base locale, lontano da Roma, da quella piazza che il 25 ottobre consegnò alla segreteria CGIL l’obbligo di articolare comunque un’opposizione all’accelerazione iperliberista sul mercato del lavoro volta alla compressione dei livelli salariali e delle garanzie sociali e contrattuali. Per quanto la Camusso tuoni contro Renzi e Poletti l’impegno a far di tutto per disinnescare la spinta del 25 ottobre sembra abbia prevalso.
Gli interrogativi che orientavano il nostro sguardo all’indomani della grossa manifestazione di ottobre restano ancora quesiti aperti. Le dimensioni sociali dello scontro che attraversa il paese e che in variegate forme spingono all’attivazione sul terreno delle lotte, in tante città sceglieranno di rivolgere quelle domande alle piazze territoriali della mobilitazione, avanzando, in fondo, una trasparente proposta: pratichiamo ancora e anche oggi lo sciopero. A differenza di ottobre però si consolida una certezza: il dispiegamento del conflitto come condizione per praticare un’opposizione reale non passerà per la CGIL. Inoltre, matura un nuovo interrogativo che qualifica meglio i destinatari della proposta di lotta di cui sopra: chi ha bisogno oggi dello sciopero generale? Chi ha bisogno di rafforzarsi nel riconoscimento di una macro appartenenza che generalizza un’istanza di rifiuto?
La prima considerazione si fa strada trascinando dietro una tesi più ampia: la forma-sindacato è essa stessa residuo di forme di mediazione e rappresentazione del conflitto tra classi utili al progetto di integrazione e pacificazione statuale. Questa è stata prima di tutto una promessa di sinistra. L’unificazione del mercato globale delle merci ha frantumato quella forma. Essa ci appare non solo desueta ma in via di principio nemica alle possibilità di costruzione di conflitto sullo scontro di classe perché, di quella promessa di sinistra, ha mantenuto, come organizzazione, solo la funzione di integrazione e neutralizzazione dell’alterità ma senza più un mondo entro cui valorizzarla, su cui stabilire limiti e misure di rapporti di forza di un soggetto parte dentro l’impresa Stato.
Nella consapevolezza della Camusso di condividere le stesse radici del ministro Poletti, ex presidente di Lega Coop (cfr. Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali), si può rintracciare l’atavica incapacità di aprire un vero scontro politico con l’estensore del Jobs Act e la complicità con un sistema di potere onnipervasivo. Ma nel bel mezzo dello scandalo Mafia-Capitale che vede coinvolto anche Poletti per i suoi rapporti con il braccio destro di Carminati, Salvatore Buzzi, ras delle cooperative sociali, fa certo sorridere ricordare come la CGIL emiliana scagliò l’accusa di mafiosità contro le lotte dei facchini della logistica che resistevano al sistema di Lega Coop. Chi dimora più vicino al lazzaretto ora? Chi l’appestato?
Ma nell’attrezzarci per marcare nelle piazze una distanza con la casta di un sindacato che riproduce se stesso, guardiamo però a quei luoghi e a quelle figure che cercano legami ma hanno ancora solo il sindacato come unica forma di organizzazione. L’emergere di un protagonismo di parte nelle lotte pone con chiarezza almeno due nodi oggi dirimenti: lo sviluppo di una rigidità collettiva nel conflitto e le forme organizzative utili a sostenerlo. Ci preoccupa e impegna infatti non tanto il sindacato ma la ricerca di nuove forme di sindacalizzazione come processo soggettivazione e organizzazione nel radicamento di uno scontro e nella definizione di un’opzione di alterità.
Rispetto a questo tema il 12 dicembre sarà innanzitutto un momento in cui vagliare una disponibilità a costruire assieme sull’esempio delle lotte. Organizzare il sabotaggio del Piano Casa, della Buona Scuola e del Jobs Act nel contrasto ai dispositivi di precarizzazione, al sistema cooperativo degli appalti e al demansionamento significa situarsi al livello di quei segmenti sociali proletarizzati che, in una fase di nuova accumulazione, guadagnano con la violenza una dimensione di nuova subalternità ma cercano un’altra identità, da costruire sul riscatto e sulla volontà di non contrattare sul proprio costo sociale.
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