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Cosa può un’assemblea, un albero e una piazza

Il 27 maggio alcuni collettivi di Istanbul montavano le prime tende per resistere alla demolizione di Gezi Park a Piazza Taksim, lo stesso giorno in Piazza Verdi a Bologna gli studenti alzavano barricate per difendere un’assemblea, insieme a delle operaie, che rischiava di essere sgomberata dall’intervento di polizia e carabinieri. Il 30 maggio piazza Taksim si riempiva di manifestanti solidali accorsi per rispondere alla brutale repressione che si era scaraventata contro i resistenti di Gezi Park, e dopo poche ore, Istanbul si accendeva del fuoco della rivolta, mentre la celere veniva messa in fuga. Così anche a Bologna, dove per resistere e contrattaccare al sopruso dei celerini e delle autorità di impedire ancora una volta un’assemblea in piazza, gli studenti riuscivano a caricare la polizia costretta a scappare dalla zona. Ma ad unire Piazza Taksim con Piazza Verdi non c’è solo una fatale ritmica degli eventi raccontata anche dal piccolo albero della libertà, piantato ieri dagli antagonisti della città nel centro della piazza al termine del corteo “i diritti si conquistano a spinta”, c’è anche dell’altro, ed è forse quello che in questo momento dovrebbe maggiormente interessarci: il territorio.

 

Nell’arco di pochi giorni abbiamo osservato e\o partecipato al ridefinirsi del territorio tramite forme di aggregazione sociale autonoma, conflittuale, orientate alla riappropriazione dello spazio urbano, segnando frontiere nette di inimicizia politica. Lo spazio non si è più definito violentemente tramite le logiche del potere nel suo volto pubblico e privato, ma si è definito tramite una produzione di soggettività antagonista. A Piazza Taksim è stata la volta dell’impennata violenta del processo di gentrificazione e privatizzazione degli spazi urbani, mentre in Piazza Verdi è stato il caso della mano putrefatta del pubblico che voleva strangolare le forme di vita che abitano la zona universitaria. Le aggressioni del pubblico e del privato hanno scatenato il contrattacco sociale forte delle stratificazioni delle memorie storiche (il massacro di Piazza Taksim del primo maggio 1977, e le barricate di piazza verdi dopo l’omicidio di Francesco Lorusso del marzo 77), della partecipazione politica autonoma (entrambe le piazze sono quotidianamente attraversate e predidiate come delle agorà dei movimenti), della produttività del territorio catturata dallo sfruttamento dell’economia capitalistica in crisi (sia ad Istanbul che a Bologna le due piazza sono luogo delle variegate forme di cooperazione tra saperi, corpi, ed energie sociali). Un contrattacco, che su scala di potenza evidentemente differente, ha saputo far saltare le frontiere della governance territoriale del potere, mettendo in fuga letteralmente l’ultimo bastione a difesa del putrescente mescolarsi di pubblico e privato sul territorio: la polizia. A Piazza Taksim il privato su ordine amministrativo voleva buttare giu degli alberi di un parco per farne un centro commerciale, in Piazza Verdi le autorità cittadine targate PD (con il suo sciocco sindaco Merola, che meriterebbe solo disinteresse, se non fosse per l’esilarante figura che interpreta di burocrate grigio del PCI che fu) volevano impedire assemblee e megafoni. Ma questa logica isterica della governance territoriale ha dovuto piegarsi e fare dietro front, incalzata dalla rigidità delle soggettività sociali che abitano e definiscono culturalmente e politicamente quei luoghi. Ecco le infinite potenzialità di un’assemblea, di un albero, di una piazza, solo appena sviluppate! Ecco cosa possono oggetti, spazi, forme di aggregazione sociale, se politicizzate dallo scontro e dall’inimicizia nei tempi della crisi!

 

Ora a Bologna tutte le istituzioni si leccano le ferite e tentano di riorganizzare il discorso politico dopo le roboanti promesse di dura repressione. Ieri un corteo di studenti, precari, operai (tra cui molti facchini) e disoccupati ha attraversato il centro della città in completa ed esplicita autonomia, concludendo l’iniziativa in Piazza Verdi all’ombra del piccolo albero piantato collettivamente nel centro della piazza. A ben vedere ora Piazza Verdi dovrà vedersela non solo con le provocazioni dei vigili e della celere, ma molto probabilmente anche con uno stormo di associazioni, che come ONG neocolonialiste, verranno scaraventate dal comune su quei metri quadrati liberati dalle lotte. Eppure la debolezza della governance del pubblico su quello spazio urbano potrebbe manifestarsi ancora una volta, visto che mai come in questi giorni la territorialità del conflitto sociale ha saputo marcare una frontiere netta tra “un noi e un voi”, da una parte le forme di vita cooperanti e politicamente antagoniste e dall’altra la marcia gentrificazione del pubblico e privato, compresi gli accoliti social-riformisti che ancora ne difendono, seppur timidamente, la costituzione.

 

Dal nostro punto di vista quanto accaduto in Piazza Verdi, e soprattutto quanto può accadere ancora, e altrove, è una nuova manifestazione di quel farsi spazio autonomo dei movimenti, che qui in Italia ha forse visto maggior sviluppo per ora solo in Val Susa. La Casbah di Tunisi, Piazza Tahrir, Occupy WallStrett, Plaza del Sol, Piazza Syntagma, La Libera Repubblica della Maddalena, e ora Piazza Taksim, ci dicono di cosa può uno spazio quando è definito politicamente dall’autonomia delle forme di vita che lo abitano. Uno spazio urbano può quindi divenire per noi un contesto, in cui agisce un soggetto antagonista, che sviluppa un processo politico, dotandosi di mezzi e contro-capacità, per conquistare i propri fini immediati e di lungo raggio. Organizzare la spontaneità resta, poggiando i piedi ben saldi sul terreno della conricerca, quell’esperimento politico collettivo che ci fa correre tra le barricate di Piazza Taksim fino a gridare “libertà” in Piazza Verdi.  Si tratta di un corsa sul crinale di ciò che è e di ciò che potrebbe essere, ma d’altronde dopo aver sperimentato cosa può una piazza, un albero, e un’assemblea siamo certi che è una corsa che vale la pena di fare. Fino in fondo.

 

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