Cremona: quale legge è uguale per tutti?
A tre mesi dall’aggressione fascista al csa Dordoni del 18 gennaio entra in campo la magistratura, mettendo anche la sua firma su questa vicenda. Sette antifascisti, colpevoli di aver difeso il centro sociale da un assalto premeditato dei militanti di Casapound, sono stati arrestati per “rissa aggravata” e chiusi nelle loro case o nel carcere Ca’ de fero (due di loro). Tra i compagni sottoposti a misura (arresti domiciliari) c’è anche Emilio, punito prima dai fascisti per la sua determinazione con un vigliacco pestaggio di massa che lo ha condotto a un passo dalla morte e a diverse settimane di coma farmacologico, poi dai giudici per essersi ribellato all’impudenza della teppaglia che ha assalito lui e i suoi compagni. Affronta oggi gli arresti nel pieno di un lungo e complesso percorso di riabilitazione medica, in condizioni di salute ancora molto precarie.
Accanto agli arresti dei compagni, arresti di fascisti: nove in tutto, sette ai domiciliari e due in carcere (questi ultimi per tentato omicidio). La magistratura cremonese, dopo aver portato in carcere alcuni giorni fa due ragazzi dello spazio occupato Kavarna, sempre di Cremona, per il successivo tentato assalto alla sede di Casapound del 24 gennaio e gli scontri che ne sono seguiti, intende così dimostrare che le istituzioni sono in grado di restituire “giustizia” dando un colpo al cerchio e uno alla botte, punendo le “intemperanze” degli uni e degli altri con ponderatezza ed equilibrio. Fascisti o antifascisti, aggressori o aggrediti, picchiatori neonazisti o militanti autonomi, non fa differenza: la legge “è uguale per tutti”. Così come è vietato uscire dallo stadio e assaltare un luogo “di opposta matrice politica”, così lo è difendersi autonomamente, senza fare appello alla forza/autorità pubblica.
Autorità pubblica che ha sempre ben chiaro da che parte stare. Gli antifascisti cremonesi avevano denunciato pubblicamente la circostanza per cui la polizia, subito dopo l’aggressione e lo scontro di fronte al Dordoni, quando Emilio era stato a stento riportato dentro alla struttura, aveva caricato gli antifascisti. Un comportamento che non stupì i compagni: la loro denuncia pubblica, lo dissero, non nascondeva la malriposta velleità di suggerire alle istituzioni (tanto meno poliziesche) comportamenti diversi, “migliori” – quasi la solidarietà sempre riaffermata nei fatti tra fascisti e poliziotti potesse essere considerata accidentale, frutto di una deviazione impropria dalle corrette regole del governo democratico – ma portare un’ulteriore evidenza empirica a un’ipotesi che la storia ci conduce a far nostra: non la legge, ma la forza giuridica (che fa della legge qualcosa di più che un documento inerte), è ciò che segnala la differenza nell’azione delle istituzioni.
Ne otteniamo oggi nuova evidenza. L’iniziativa della magistratura non è frutto dell’idea folle e isolata di un giudice, ma della logica che è propria della giurisdizione contemporanea. Tenta di riaffermare grottescamente il principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge come perno ideologico della concreta falsificazione liberale della realtà in cui viviamo: rimosse le condizioni sociali che contribuiscono ad originare i comportamenti, annichilita l’osservazione critica di ciò che si muove nella società, delle sue connessioni e della sua storia, si arriva senza colpo ferire a mettere sullo stesso piano chi vorrebbe una società che ravvivi il ricordo di Mussolini e Hitler, ed è disposto a uccidere per questo (un fascista di Casapound dice nelle intercettazioni: “Era meglio se Emilio moriva, così non dovevamo mantenerlo tutta la vita”) e chi intende mantenere solida la barriera contro questa barbarie – quella che eressero i partigiani.
Il patetico formalismo della giustizia capitalista poggia d’altra parte, nella realtà, sul più fatale pregiudizio e sul più triviale luogo comune. Il presunto distacco con cui il giudice incasella fatti scrupolosamente accertati nelle diverse categorie dell’universo giuridico (autoritratto tanto caro ai magistrati di destra e di sinistra) è intriso, nel concreto dell’argomentazione che ogni volta troviamo agli atti, di beceri assunti sottoculturali e delle più viete enormità/mortificazioni linguistiche, dovute all’ignoranza fondamentale di cui l’intera magistratura è vittima. Privilegiati economicamente e socialmente, educati secondo una disciplina professionale che nega alla radice non soltanto ogni riflessione critica sul mondo e sulla vita (o sul significato reale del loro ruolo), ma qualsiasi reale contatto con una realtà non filtrata dai rinfreschi in doppiopetto o dei verbali di polizia, giudici e pubblici ministeri possiedono la visione antidiluviana di una realtà sociale divisa in buoni e cattivi, dove il cattivo è per lo più tale se poco istruito, menomato o cerebralmente stupido.
Per questi coglioni, noi siamo dei bruti; da cui la conclusione che non v’è illegalità o devianza (dicono, ipocritamente: “violenza”) che possieda dignità politica. Anzi, là dove il reato è commesso a seguito di un ragionamento politico, è la politica come tale ad essere vituperata e degradata, giacché si oppone l’aggravante del carattere “intollerante” e “antidemocratico”, e quindi “socialmente pericoloso” di questo o quel comportamento. È soltanto a seguito di una mancata comprensione della bontà e giustezza del pensiero unico, del liberalismo e del conseguente positivismo giuridico, che il soggetto può cognitivamente “sbagliarsi” e passare all’azione (pardon, procedere alla commissione di un reato; che appare allora più facilmente reiterabile rispetto alla semplice “scappatella” dovuta a presunta debolezza morale). È così che fascisti e antifascisti non sono che “estremisti” da reprimere come fossero, storicamente e moralmente, la stessa cosa.
Questo melange di astrattezza e trivialità produce, in assenza di contrappesi sociali e conflittuali, un sempre maggior inasprimento del carattere arbitrario della sanzione. Quest’ultima è oggi, lo sappiamo, sempre più amministrata preventivamente, quindi commisurata alla valutazione di una condotta futura – delle intenzioni, quindi delle idee e delle rappresentazioni della realtà. Le misure di prevenzione del ministro Scelba (anni Cinquanta) rivelano proprio in questi anni Duemila la loro intima modernità, nel momento in cui le misure cautelari riformate ai tempi della lotta armata (anni Ottanta) vengono piegate a un utilizzo più “preventivo” (basato sulla pericolosità sociale generica e quindi, di fatto, sull’inclinazione politica) che “cautelare” (basato sul pronostico puntuale di una successiva condotta). È su questo punto, fondamentale per comprendere l’evoluzione attuale del diritto penale, che l’ideologia costituzionale democratica mostra l’intima contraddizione con l’ordinamento di cui è scudo, là dove il gip giustifica gli arresti dei compagni cremonesi sostenendo che la reiterazione del reato è resa pronosticabile “dall’approssimarsi delle scadenze del 25 aprile e del 1 maggio”.
Sarebbe miope attribuire arretratezza politica a chi applica strumentalmente una simile ideologia (le ideologie sono sempre strumenti) per imporre una sottomissione imbelle alle regole della pace sociale, e non a chi, invece, pensa di farla propria (più o meno consapevolmente, o surrettiziamente) per stimolare una critica all’ordine esistente. La polizia che carica i compagni di Emilio di fronte al Dordoni, o che difende la sede di Casapound a costo di trasformare Cremona in un campo di battaglia, è come la polizia che fa irruzione alla Diaz e punisce chi ha partecipato alle giornate di Genova: fa il suo lavoro di polizia. Questo lavoro non è adempimento deontologico immaginario, ma sostanza di un ruolo sociale, espressione di forza giuridica anche contro la legge vigente o una sentenza internazionale, o a prescindere da esse.
Analogamente, la magistratura che ha arrestato i compagni a Cremona non è altra da quella che ha condannato dieci compagni a cento anni di carcere per i fatti che fornirono giustificazione al massacro della Diaz, e lascia impuniti o quasi i funzionari che lo misero in atto: fa il suo lavoro di magistratura; che non è un lavoro neutrale, né mai lo sarà; e non è in alcun modo, nella sostanza delle cose, un lavoro diverso da quello della polizia. Per la stessa ragione le istituzioni che promuovono i vertici di quella polizia a incarichi di prestigio non fanno che premiare burocrati (indubbiamente, e logicamente, violenti) che hanno saputo obbedire agli ordini e svolgere egregiamente il loro mestiere; e quelle che celebreranno a Milano, il 28 aprile, la figura del neofascista Ramelli come hanno celebrato quella dell’aguzzino repubblichino Mori, non fanno che mostrare fino a che punto l’equiparazione di antifascisti e antifascisti nell’oggi si radica – oggi – nell’equiparazione dei fascismi e degli antifascismi di ieri. Invece che immaginare un universo astratto cui la realtà istituzionale esistente dovrebbe conformarsi, iniziamo a pensare un’alternativa alla forza brutale effettiva che attraverso quella realtà istituzionale si esprime.
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