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Crisi, reddito, bisogni

(*)

 

1.

Parto da una frase : “Bisogna fare qualcosa sul terreno del reddito minimo, altrimenti c’è casino”. Non : “Bisogna fare qualcosa sulla questione del reddito minimo perché la società se no si marginalizza, si impoverisce”. Questo modo di ragionare è quello che sta dietro al disegno di legge presentato in questi giorni e che è stato appoggiato anche dalla Cgil. Ed è stato appoggiato dalla Cgil non perché questa sia stata improvvisamente illuminata dal santo protettore dei precari e dei disoccupati ma perché è preoccupata, dentro al sistema di potere, di una dinamica sociale che gli può sfuggire di mano: la Cgil è ossessionata dal problema del controllo sociale. In questi discorsi c’è la preoccupazione di chi ha in mano il potere, che dice: “Sono preoccupato della degenerazione del conflitto sociale, quindi mi devo preoccupare di possibili interventi preventivi”. Noi diciamo invece: “c’è una storia del movimento antagonista (la nostra storia) che parte dal presupposto che il terreno del conflitto è una priorità ideologica: senza conflitto non ci muoviamo!”. Perché c’è anche chi pensa che senza conflitto si può vincere. E allora noi saremmo stati degli scemi – il movimento operaio, il movimento studentesco, il movimento dei giovani – a prendere mazzate e a subire anche sconfitte, a passare il tempo e pratiche sul discorso dell’uso della forza nel conflitto sociale, perché non abbiamo capito che c’era una strada che avrebbe anticipato il rischio della degenerazione del conflitto sociale. Perdonatemi, sarò vetero, ma non riesco ancora a convincermi di questo. […]

Dobbiamo impegnare le nostre intelligenze nel capire perché, nell’Occidente avanzato in cui noi siamo inseriti, di fronte al massimo sviluppo della Scienza e della Tecnica (e quindi al massimo sviluppo dei risultati della ricerca e della sua applicazione, cioè la Tecnologia) siamo di fronte a uno scenario capitalistico di ritorno indietro alla soglia minima delle condizioni di vita della società intera. Il sistema capitalistico ha oggi una natura, una conformità, una identità che dobbiamo capire bene. Non siamo di fronte ad un mostro che ha deciso di impoverire la gente; siamo di fronte a un sistema di potere che ha il problema ENORME (mi metto per dieci secondi nei loro panni) di risolvere a fronte dello sviluppo delle forze produttive il problema del controllo sociale. Quando il M5S dice: “Dobbiamo ridurre l’orario di lavoro” e nello stesso tempo dice “Dobbiamo aumentare la produttività, grazie alle tecnologie”, ecco, questo è uno dei terreni, compagni, secondo me decisivo di riflessione. Bisogna capire che la produttività attraverso l’utilizzo delle tecnologie NON è il terreno di valorizzazione del capitale – non lo è mai stato e non lo è neanche oggi. Per quella che è la natura del sistema capitalistico, il problema dell’innalzamento della produttività non è mai stato, e non è nemmeno oggi , un problema legato alle tecnologie. Le tecnologie dimostrano anzi come il sistema capitalistico abbia una crisi profonda di produttività; cioè è un sistema che può essere oggi in grado – proprio grazie alle tecnologie – di liberare dalla necessità del lavoro, quindi di suicidarsi come sistema capitalistico. Siamo di fronte cioè a un modello che ha raggiunto un livello di sviluppo tale per cui il suo problema di sopravvivenza è legato alla natura dello sviluppo che ha raggiunto. […]

La natura attuale del sistema di dominio generale, del sistema capitalistico, ha fondato un modello che fa della precarietà il pilastro strategico fondamentale. La precarietà del rapporto capitale-lavoro è la nuova natura del modello capitalistico attuale. La risposta del reddito di cittadinanza è una risposta che ha per questo in sé, politicamente, una valenza antagonista radicale rispetto a questo modello: il modello della precarietà come stabilità di un nuovo modo di governare la società, di controllare la società. La precarietà, che vuol dire isolamento, individualismo, marginalità… o ricchezza, per chi è bravo a vincere la battaglia individuale. Ma non c’è più, in questo modello fondato sulla precarietà, una separazione netta fra dove si lavora e si produce e dove non si lavora e ci si riproduce; non c’è più separazione fra i luoghi della produzione della ricchezza e i luoghi della

riproduzione della società. E questo fatto fa diventare l’intera società il momento in cui il capitale gioca la sua partita di controllo della società e di valorizzazione. Questo per me è il terreno di riflessione teorica che dobbiamo capire, che dobbiamo comprendere. Se non riusciamo a partire da questo, io vorrei che qualcuno mi dicesse perché dobbiamo decidere se è equo chiedere 600 euro di reddito minimo garantito, o 1000 o 1200, oppure se è ridicola. Se cioè il problema non sia piuttosto quello della trasformazione della società. Chiudo ritornando a quello che ho letto della vostra esperienza No tav: leggo dalle vostre pagine che quell’obiettivo è diventato una sorta di piede di porco, di scardinatore di un pensiero grigio e piatto, è ed è stata l’occasione per cominciare a discutere di TUTTO, NON di un antagonismo fra il capitale progressista che corre veloce sulle rotaie e la valle arretrata che vuole raccogliere le margherite e pascolare le mucche. Ho letto sulle vostre pagine, nelle interviste bellissime, piene di contraddizioni ma soprattutto di cose molto belle, che quella esperienza sta diventando un laboratorio che attorno ad una parola d’ordine su cui si è disposti allo scontro duro, un momento di riflessione a tutto campo su un modo diverso di concepire la trasformazione della società. E questa secondo me è la grande lezione che ci sta dando quell’esperienza, con tutti i limiti che ha dentro, ma con l’indicazione chiara che la partecipazione diretta di un tessuto sociale più ampio possibile su una battaglia concreta, materiale, tangibile, toccabile come quella dell’obiettivo contro questa opera (che comunque ha in gioco miliardi di euro) è il momento che consente di discutere di tutto il resto, di un’idea, di un’ipotesi di trasformazione della società altra.

 

2.

Mi sento preoccupato ed angosciato quando noi – dico: NOI – siamo in ansia a parlare del lavoro.

Io vorrei che fosse chiaro che il problema del lavoro nella storia del modello di sviluppo occidentale è sempre stato un problema del capitale. Il nutrimento di quel sistema di potere che si chiama capitalismo è il lavoro. Senza lavoro non ha ragione di esistere questo sistema di potere. Noi dobbiamo avere la forza di dire che l’ideologia del lavoro non è del movimento operaio, dobbiamo averlo questo coraggio. Dobbiamo avere il coraggio di dire che la perpetuazione della necessità del lavoro non può essere una ambizione nobile dell’umanità. Il lavoro è necessario al capitale per la sua esistenza, non è necessario a nessun altro per vivere! Se noi riuscissimo a liberarci dal lavoro avremmo raggiunto dal punto di vista delle possibili ambizioni nobili dell’umanità, uno dei risultati più alti. Siamo consci di questo? O abbiamo comunque il bisogno di legittimare il fatto che noi eticamente, moralmente, rivendichiamo i nostri diritti solo se fatichiamo? Che palle! Noi rivendichiamo dunque i nostri diritti solo se garantiamo la formazione di una linfa vitale ad un sistema di potere che ci è nemico e che ci ha abituato fino ad oggi così? Quando si dice siamo in una fase di crisi di sovrapproduzione, che cosa significa? Significa che la macchina produttiva mondiale, la macchina che produce ricchezza nel mondo, non riesce a dare sfogo a quello che produce dove ci sono soldi per comprare. Se la macchina producesse solo pane, la produzione di pane sarebbe in crisi non perché non c’è nessuno che ha fame, ma perché non ci sono quelli che pagano il pane! La crisi di sovrapproduzione di pane (che è l’unica merce che produciamo nella mia astrazione) è tale perché il mercato che compera il pane è minimo rispetto alla quantità di pane che possiamo produrre. Ecco perché siamo in crisi di sovrapproduzione! Allora se la ricetta è quella storica, potrebbe essere quella di una nuova grande guerra distruttiva e poi si ricomincia. Il problema è che questo scenario è abbastanza irrealistico anche dal punto di vista del capitale, perché la distruzione necessaria oggi non è più quella sul terreno fisico, geografico occidentale come è stato l’ultimo grande conflitto (attenzione, parliamo di 60 milioni di morti sul teatro del territorio europeo!). Oggi la crisi economica delle dimensioni che stiamo vivendo, se risolta con un conflitto tradizionale, potrebbe rappresentale un livello di distruzione altissimo per la nostra specie, ecco perché c’è una preoccupazione forte del capitale, ecco perché i margini di tollerabilità del conflitto sono bassi oggi. Paradossalmente, a fronte di un meccanismo che è in grado di produrre e soddisfare bisogni ad altissimo livello planetario, i margini di tollerabilità del conflitto, cioè di percorsi che non sono dentro il sistema, sono bassissimi. La Valsusa è un problema serio, mettiamocelo in testa! Se la Valsusa vince, il sistema di potere del

nostro paese dovrà dire che ha deciso di non fare il Tav, non dovrà dire “abbiamo perso”, perché se dicessero che hanno perso, se dovesse dire “torniamo indietro sui nostri passi perché quella valle e la solidarietà che ha saputo raccogliere in Italia e nel mondo ha vinto”, non sarebbe solo la vittoria della Valsusa. Il peso potenziale che ha questa frattura, questa rottura, questa incrinatura è un peso politico di altissimo profilo. […]

Vi citavo prima la legge depositata adesso sul reddito che è il livello minimo possibile di risposta e di tentativo di mediazione del sistema di potere di fronte a una parola fortissima come è quella del reddito di cittadinanza. Quella proposta di legge… partiamo pure da lì ma è miserabile! Eppure ha una valenza politica altissima… Quella proposta è il tentativo di stoppare quella parte di società che può muoversi su quel terreno. Allora ricordo, nell’antichità della nostra esperienza politica (gli anni ’70), di una proposta che noi nelle grandi metropoli avevamo tentato ma che poi abbiamo perso, sconfitti dalla nostra evidente scarsa capacità di radicamento e dall’incapacità di contrastare la tendenza militarista (che è stata vincente finché non è stata sconfitta, e così siamo stati sconfitti tutti). All’Eur a Roma, Luciano Lama, segretario della Cgil, dichiarava che il salario era una variabile dipendente dallo sviluppo (e non indipendente com’era stato fino ad allora), un vero e proprio omicidio politico dei diritti dei lavoratori. Mentre lui diceva questo (e quegl’altri rapivano Moro) noi rispondevamo, con scarsa capacità però di dare una battaglia forte, “costruiamo le vertenze territoriali: costruiamo le piattaforme sociali in tutte le grandi città e in tutti i territori!”.

La domanda che stasera io (vi) pongo è questa: è possibile che questi luoghi, dove siamo qui stasera, possano essere il laboratorio per la redazione di una piattaforma per costruisca una vertenza non più di quella fabbrica, di quell’ospedale ecc… ma di questo territorio e questa città?

 

 

(*) (Sbobinatura parziale dell’intervento di Ferruccio Dendena al dibattito tenutosi il 16 aprile 2013 al centro sociale askatasuna)

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