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Direzione futuro

Estate 2012. Un’altra estate della crisi. Scorcio di tempo nel quale, preparando un esame o aspettando un pullman, bevendo un birra o stipulando una tregua con l’agenda, possiamo prenderci quello spazio e tempo per riflettere su una parentesi che va concludendosi, su un anno politico oramai giunto al capolinea; un capitolo che si conclude ma che già lascia presagire le sfide del prossimo.

Essere in movimento, per noi, significa questo. Assaporare gli odori dell’oggi, pensando già a quelli di domani. Nell’entusiasmo e nell’ambizione, nelle luci come nelle ombre, che si fa collettiva ragione, per essere vissuta. Non è retorica collettivista la nostra, abbiamo imparato tutto dalle lotte, dalle genti che insieme a noi hanno deciso di diventare protagonisti attorno a dei No costituenti, meritevoli delle nostre energie e del nostro tempo perché incarnanti progetti che non si accontentano della miseria dell’oggi, ma che puntano il cielo, nell’ambizione di sfide che chi ci comanda vorrebbe assorbire per annullare e pacificare, per renderle innocue. La stridente linea del conflitto nella ‘democrazia della crisi’ pensiamo debba essere attraversata, non bypassata o evitata, perché solo lì può nascere quell’alterità possibile e necessaria.

Il nostro orizzonte è quello delle lotte, che diventa bussola nel riflettere sul pavido deserto costituitosi nelle nostrane università nell’epopea del post Gelmini. Con alle spalle tre anni di reticolari lotte contro la riforma, nella memoria della bolgia di un 14 dicembre 2010 oramai fissato negli annali della storia che sospira rivolta. Il movimento No Gelmini ha rappresentato il punto più avanzato, nel bene e nel male, di una stagione di lotta alla crisi che s’insediava. Il resto non si è dimostrato sufficiente, all’altezza; con molta chiarezza possiamo continuare a tenerlo presente, soprattutto guardando ad un post mobilitazione studentesca che immancabilmente ha confermato indiscutibili e distribuiti limiti. Non è certo il tempo di crogiolarsi sul passato, anche laddove recente, ma trarne da esso lezione. Il senso che diamo al momento del bilancio non è né storiografico né memoriale, ma è esigenza di una verifica già concentrata sulla curva successiva.

Quest’ultima è la sintesi di una convinzione assunta dentro e contro l’attualità della crisi: non è più il tempo della ritualità e della ripetizione, del vivacchiare avvolti all’interno di formule che, per quanto funzionali in altre fasi, oggi si mostrano in tutta la loro inefficacia. Si rasenta il ridicolo nella riscoperta del già vissuto, laddove rappresenta l’incapacità di rinnovarsi, di porsi per davvero in modo nuovo l’eterno interrogativo del ‘che fare?’, di sintonizzarsi con insopprimibili livelli di realtà. Se la crisi è opportunità per i movimenti, è anche cesura tra chi rappresenta (con autoreferenzialità) la realtà e chi invece l’attraversa, per modificarla.

Tematizzare l’alveo ridente delle soggettività e della composizione sociale rappresenta ancora la necessità ed urgenza di domandare, conoscere, formare e trasformare lo spazio della rivolta possibile, con addosso l’umiltà di imparare e il bisogno di segnare, decidere, organizzare, costruire, collettivamente. La fase della progressiva e complessa crisi sistemica che avvolge il finanzcapitalismo ai quattro angoli del globo ci induce sulla strada di una crisi di civiltà che diventa il campo di battaglia per una soggettivazione non monopolizzata dall’alto. Fare i conti con il reale significa questo: l’abbandono e la frustrazione non trovano casa, non nella nostra. Le accelerazioni non sono affare che ricomprendono solo mercati finanziari & co. ma stringono dentro la loro morsa anche il procedere delle soggettività dei nostri territori: nei limiti come nelle ricchezze, le composizioni cambiano così velocemente che indispensabile è saperle intercettare, per conoscerle e ricomporle, oltre l’adagio (fondamentale) del ‘contro’ ma nella materialità di un’opposizione sociale contro la società dell’economia del debito, per una cooperazione differente ed antagonista proiettata sempre e comunque in ‘direzione futuro’.

L’autunno sfocato del belpaese, poi la primavera inesplosa, hanno purtroppo conosciuto pochi momenti degni di una scia per la contestazione ed il cambiamento. Il coraggio di sperimentare l’odierno non è stato l’umore che ha pervaso i nostri territori, probabilmente ha vinto la logica del puntare bandierine e del riprodurre il conosciuto. Male. Magari si sono date una molteplicità di vertenze, difficili da andare a definire propriamente come lotte, magari sono state in grado di produrre anche scorci di conflitto, fallendo però nel tentativo di generalizzazione. I territori sono stati i teatri dentro i quali si sono giocate una moltitudine di possibilità, raccolte o meno, che probabilmente si sono poste come aperitivo per una possibile ‘indignazione’ italiana, che sicuramente non si genererà domattina ma che cova, ovviamente come possibilità (al bando gli automatismi!). Come giustamente ha fatto notare Silvano Cacciari: ‘Hessel non abita in Italia’. Ritornano al pettine i nodi del 15 ottobre 2011? Crediamo di si, nei preistorici limiti organizzativi, nei mal di pancia digestivi ma soprattutto nell’emersione di una composizione sociale indomita, di una precariato sociale vivo perché non rassegnato, irrappresentabile. Piazza San Giovanni è stata l’agorà costituente per una rivolta né ‘indignata’ né ‘colorata’, occasione però dispersa.

Il governo dei professori ha forse funzionato, in un primo momento, come mentore d’ordine. I tagli, l’austerità, quindi la prepotenza della ricetta del presunto salvataggio hanno rimodellato una società della crisi nella quale si aprono quelle faglie dentro le quale andarsi ad installare, per agire quel rifiuto che è base e possibilità di alternativa. Le università sono rimaste assorte dalla musica del robotico maestro Monti, nella tensione di contestare e nell’insufficienza di organizzare, strette nella morsa di una trasformazione strutturale di accademie dentro le quali l’ha probabilmente spuntata la governance della rappresentanza che sopprime il conflitto, che non si ostina lungo la via della ricerca di nuovi spazi comuni di partecipazione collettiva, che invece è la nostra strada; l’anomalia della Verdi 15 Occupata di Torino non necessita di ulteriori precisazioni ed affermazioni.

Lungo la linea stretta del fosso che si vuole scavare tra università e metropoli si presenta forte l’importanza di costruire discorso attorno alla questione degli spazi del conflitto, che si lega immediatamente al nodo delle soggettività e della composizione che si trasforma dentro la crisi. L’università mantiene la peculiarità di teatro ambivalente e potenziale, attraversato in termini di massa dalle soggettività di una generazione in debito, quindi conserva la potenza di spazio di soggettivazione e aggregazione altra. Il che ovviamente non si concede alle bipolari considerazioni, crediamo superficiali, sull’abbandonare l’accademia per gettarsi nella città né sul resistere negli atenei nell’attesa della sommossa. Ha certo ragione Sergio Bologna quando si ostina a descrivere le università come possibili ‘nuove sedi di unità’, aventi capacità di resistenza in quanto pubbliche arene ma anche candidate a diventare luoghi dove ricomporre e rilanciare il conflitto, non unicamente universitario. La via della sinergia tra università e metropoli, della distruzione delle retoriche che dipingono l’accademia come regno del sapere sacro e neutro, quindi del meticciato metropolitano che merita di essere sperimentato e ricomposto, è la scommessa da assumere per legittimare le fabbriche del sapere come quel comune da riconoscere, costruire ed organizzare.

Noi siamo pronti. Ai nostri posti ci troverete, nelle facoltà, nelle strade, nelle lotte. 

Editoriale di Rise up! 2.0, rivista del Collettivo Universitario Autonomo, che verrà distribuita al campeggio ‘Val Susa, l’Università delle lotte’.

Per altre info: www.cuatorino.org

 

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