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Dubliners (ovvero i Dannati di Ventimiglia)

Lasciamo quest’Europa che  non  la  finisce  più  di  parlare  dell’uomo  pur massacrandolo
dovunque  lo  incontra,  a  tutti  gli  angoli  delle  stesse  sue  strade,  a tutti gli angoli del mondo.
(Frantz Fanon, “I dannati della terra”)

Esiste un grave rimosso storico nella società italiana che, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, rappresenta un nodo irrisolto e quasi mai affrontato dal dibattito pubblico e che oggi si impone in tutta la sua stringente attualità. Il passato coloniale dell’Italia è infatti un fantasma del quale in pochissimi vogliono sentire parlare e che ogniqualvolta tenta di riemergere viene immediatamente sotterrato sotto anni di indifferenza e strumentalizzazioni. La narrazione tossica che negli anni ha descritto gli italiani delle colonie come “brava gente” ha avuto come conseguenza immediata il mancato sviluppo di una memoria collettiva in merito a questi avvenimenti. Una memoria collettiva che invece contribuirebbe a smuovere il dibattito dallo stagno della demagogia più pura nel momento in cui si pretende di prendere parola sul fenomeno della migrazione, soprattutto se questa proviene da paesi fino a pochi decenni fa occupati da potenze europee, Italia inclusa.

In questi giorni al confine italo-francese di Ventimiglia stiamo assistendo ad un vero e proprio spettacolo di cannibalismo politico il cui oggetto del contendere è un gruppo di centinaia di persone – uomini, donne e bambini – provenienti dall’Africa che da giorni vengono letteralmente “rimbalzate” da una frontiera all’altra senza che nessuno dei due paesi (entrambi fondatori dell’Unione Europea!) si azzardi a prevedere una soluzione che non passi attraverso l’impiego infame della forza pubblica. Non si trattasse di vite umane, per di più in fuga da guerre e povertà, ma di merci fatturabili il cui margine di guadagno può essere misurato in termini di plusvalore immediato il problema non si porrebbe: per gli autocarri che vanno oltralpe il trattato di Schengen è più valido che mai, anzi. L’importante è trovare il modo di spostare più merci, magari implementando il trasporto di queste ultime moltiplicando le vie di comunicazione, bucando montagne e devastando vallate che poi verranno attraversate da treni ad alta capacità.

Ma i rifugiati portano alla luce un problema di più ampio respiro inserendosi in un’ulteriore contraddizione: quella del mantenimento della sacralità dei confini e dello stato-nazione, che all’oggi costituisce uno dei nervi scoperti del sistema di governance europea e rappresenta, quindi, un possibile punto di rottura. Il continuo arrivo di persone dall’altra sponda del Mediterraneo smantella infatti dalle fondamenta la pretesa inespugnabilità e unità della Fortezza Europa. Le pratiche di resistenza messe in atto dai migranti nel rifiutare il Regolamento di Dublino – e quindi sottraendosi all’odiosa pratica del rilevamento delle impronte digitali rivendicando di fatto il diritto alla libertà di movimento – rivelano con forza un potenziale dirompente, capace di incrinare la divisione capitalistica dei confini e determinando così una dinamica di sfida radicale dal basso nei confronti dell’UE. In questo senso si inseriscono le parole di Angela Davis che è recentemente intervenuta a Berlino sostenendo: “Il movimento dei migranti è il movimento del ventunesimo secolo, è il movimento che sta sfidando gli effetti del capitalismo globale, è il movimento che reclama i diritti civili per tutti gli esseri umani”.

Queste persone, che dal momento in cui sono sbarcate sulle coste italiane non hanno fatto altro che spostarsi in cerca di un futuro un po’ meno incerto (se nel frattempo siano riuscite anche a “rubarci il lavoro” è un’incognita alla quale non tentiamo nemmeno di dare una risposta), pretendono anche di ribellarsi alla situazione in cui vengono costrette e non possono essere immediatamente riciclate in un sistema di valorizzazione a fini economici che prevederebbe il loro inserimento in una cooperativa che li sfrutta – pardon, li impiega in lavoro volontario – intascandosi il danaro che riceve per la gestione dell’ ”emergenza”. Mafia Capitale docet.

In questo modo il buon selvaggio da ammansire diventa caso senza speranza, talmente inferiore da non servire a niente e, quindi, da cacciare. E, se da un lato è la Francia uno dei prima responsabile dei maggiori conflitti che stanno devastando l’Africa e il Medio Oriente – bombardamenti della Libia, invasione del Mali… -, la totale indifferenza verso ciò che sta capitando a Ventimiglia e la quotidiana esaltazione mediatica della propaganda di Salvini palesano un razzismo istituzionale, dal sapore coloniale, ben radicato anche nel nostro paese.

Quello che accade oggi al confine non è altro che il frutto di una proletarizzazione in corso, dove molti giovani – la composizione delle centinai di migranti a Ventimiglia è fra i 16 e 25 anni più qualche gruppo di famiglie – provano ad assicurarsi un futuro migliore da quello prospettato nel loro paese di origine. Certo, l’ingerenza delle potenze occidentali (e le guerre che queste ingerenze producono per effetto della crisi economica) nei continente africano sono altrettanti fattori dei flussi migratori, ma il nodo politico della questione è la privazione di una vita migliore che oggi ci viene negata dalle politiche di austerità europee che provocano impoverimento, sfruttamento e precarietà.

A un capitalismo sempre più affamato che pretende di appropriarsi non solo dei mezzi di produzione, ma anche delle vite stesse, essere solidali con la lotta dei rifugiati di Ventimiglia non significa semplicemente aiutare “questi poveretti” – inserendosi così nella più sterile tradizione di stampo assistenzialista –  ma lanciarsi nella sfida di riprendersi, tutti insieme, le nostre esistenze.

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