Il governo Meloni e noi. Appunti per la militanza..
Dopo i primi mesi di legislatura “democraticamente” eletta, cerchiamo di fotografare una prima parziale, ma quanto mai necessaria, analisi dei paradigmi, vecchi o nuovi che siano, su cui le istituzioni cercano di costruire la loro attuale legittimità di governo.
Semplificando si corre il rischio di trascurare l’importanza dei dettagli e si danno per scontati i lasciti del passato, che sommandosi uno sull’altro costituiscono i pilastri del presente. Eppure, l’esigenza di costruire uno sguardo di parte capace di battere la rappresentazione banale che ci viene propinata dall’informazione asservita agli interessi della controparte è impellente.
Provando a tradurre il programma profondo, implicito ma reale del nuovo esecutivo, possiamo tranquillamente dichiarare che questo sia il governo del ricco e del meno ricco, il governo del grande industriale e del piccolo imprenditore, della grande cooperativa con mille appalti e servizi e di quella piccola che cerca di seguire i principi cooperativi. Lo è perché convince e vuole convincere il più ricco che ha bisogno del meno ricco per poter tenere a bada chi la ricchezza non ce l’ha, chi sta in basso, chi non ha nessun tipo di autonomia reale nel proprio lavoro e chi è povero. Lo è (o meglio vorrebbe esserlo) perché convince il meno ricco che solo alleandosi con il più ricco potrà evitare di diventare anche lui un senza niente, uno che sta in basso.
Non è un governo per chi sta in basso, non ci prova neanche, sì, magari qualcuno lo ha anche votato, perché ammaliato, ha creduto a torto di trovarsi fra i meno ricchi. Ma se guardiamo ai voti che sono rimasti inespressi (astensione) e quelli che sono andati ai 5 stelle, vediamo bene che la maggioranza di chi sta in basso, del popolo, del ceto medio (definitivamente) impoverito, dei proletari, non crede nella promessa di governo. Non crede nella governabilità della crisi. Il Parlamento è per la maggior parte delle persone uno spreco di risorse, una “mangiatoia” per gli interessi privati.
La più grande contraddizione di questo patto proposto da Meloni e compagnia, è che la speranza di un mantenimento della ricchezza dei “meno ricchi” sotto la protezione e il comune arricchimento del grande padronato, è un cortocircuito. La dinamica dell’inflazione e il grande capitale internazionale spingono per una concentrazione del capitale, affinché questo possa generare profitto e attraverso di esso il rigenerarsi del dominio del capitalismo finanziario. Se anche i padroni italiani e la borghesia italiana fossero davvero intenzionati a praticare questa alleanza, i loro desideri si scontrerebbero con i fatti e la dura realtà.
Quanto potrà durare? Non c’è risposta certa, ma non in eterno. Come si evolverà la situazione? A chi si rivolgeranno i piccoli imprenditori del paese quando capiranno che oltre al fumo l’arrosto è stato mangiato da qualcuno più grosso e affamato di loro? Chi li rappresenterà nella politica?
E finché durerà questa messa in scena, cosa farà chi sta in basso? Cosa succederà se le speranze e l’immaginario di un possibile arricchimento attraverso la partita iva, l’essere in ascesa, l’essere in aspirazione ceto medio e ambire alla posizione di meno ricchi, smetteranno di essere le illusioni a buon mercato di chi sta in basso?
Lo smantellamento del reddito di cittadinanza è un percorso governativo che va verso la direzione di praticare, con degli effetti concreti, questa nuova direzione del quadro politico. Dietro la coltre propagandistica si cela l’intenzione concreta di facilitare l’addomesticamento della manodopera per la piccola e piccolissima impresa. Si pensi alla ristorazione, all’agricoltura stagionale, alla dimensione industriale manifatturiera che abusa di tutte le forme contrattuali precarie e sottopagate. Il taglio al reddito di cittadinanza risponde al bisogno delle imprese di mantenere basso il salario e continuare a comprimere il lavoro vivo, non solo per non rinunciare ai profitti, ma per salvarsi dal “giro di vite” della concentrazione di capitale data dall’inflazione e dal rialzo dei tassi. La conseguenza concreta della geopolitica di dominio degli Usa e del capitale debitorio che ad esso si riferisce ha delle conseguenze concrete nella dinamica sociale e della ridefinizione delle dinamiche di classe nel nostro paese.
L’Unione Europea svolge ancora una volta verso l’Italia la funzione di guardiano e di garante della dinamica che i flussi della valorizzazione devono seguire, secondo due direttrici di pressione sul governo. La prima, verso un impiego puramente “responsabile” delle risorse del PNRR, ossia che non venga utilizzato solo per soddisfare le ruberie del miserabile padronato nostrano ma neanche verso un utilizzo sociale a sostegno dei salari e del welfare. La seconda, mira a garantire che i progetti finanziati servano a innovare tecnologicamente il lavoro e le strutture e infrastrutture della Stato in una direzione di messa a profitto a favore del capitale privato, in questo senso si pensi all’utilizzo dei fondi nel settore sanitario o a livello energetico.
In quest’ottica il sentiero tracciato per il governo Meloni, lascia ben poco spazio alla realizzazione dei progetti governativi per un nuovo patto sociale che escluda l’ascesa sociale del ceto-medio basso a garanzia della media e grande impresa.
Le restrizioni imposte all’agibilità democratica del dissenso e del conflitto sociale sono proporzionali alla fragilità di questo progetto e potenzialmente possono farne esplodere le contraddizioni e minarne la tenuta.
La legge anti-rave va in questa direzione e segna la continuità con le operazioni repressive di stampo associativo contro i movimenti e il sindacalismo conflittuale.
Questo modus repressivo di risposta preventiva dello Stato, difficilmente cambierà se non a un mutare dei fattori la cui somma lo determinano. La generalità dell’attacco di “classe” del governo, che esaspera alcuni tratti del Draghismo precedente, è un cambio di fase ma non va confuso con il fenomeno storico del fascismo, inteso come risposta di classe militante, ma anzi, è forse il suo diretto opposto, ossia il tentativo sterile dello stato “minimo” neoliberale che deve facilitare l’accumulazione del capitale privato e garantire che la lotta di classe non interferisca. Qui si vedano le caricature riferenti al merito, l’autarchia, la famiglia, il “duro” lavoro, come propaganda spiccia su cui provare ad intruppare gli utili idioti di turno. Retorica immediatamente raccolta a “sinistra” per poter aggirare furbescamente il nocciolo della questione e riferirsi ad una generica tutela dei diritti civili.
Un altro scoglio è l’insita debolezza dello stato neoliberale quando deve invertire il rapporto di sovranità fra Capitale e Stato, anche quando ciò avviene nell’ottica di tutelare la tenuta del sistema stesso. La pandemia da covid-19 è stata esemplare in questo senso, ed ha evidenziato la debolezza di questo modello di Stato nella possibilità di governare le direttrici impazzite del capitalismo.
Proprio per questa debolezza la guerra inter-capitalista largamente dispiegata, torna ad essere un modo per garantire la tenuta del sistema del dominio, perché apre nuovi spazi di profitto e mira a perpetrare l’ordine mondiale imposto dalla governace americana.
Il governo si fa protagonista scalpitante del bellicismo anti-russo, anche a costo di danneggiare pesantemente le fragili catene del valore del capitalismo italiano, in virtù di questa insita debolezza e della coscienza che si fa sempre più strada fra il padronato nostrano, che sia meglio più sicuro prostrarsi alle richieste militari Usa, piuttosto che tentare azzardate strade di allontanamento verso altri lidi.
Questa debolezza è il risultato di uno stato che facendo a meno della “dialettica democratica” della lotta di classe, riduce i suoi spazi di mediazione nella società a favore del massimo spazio di agibilità possibile del capitale finanziario, ma non perde le sue caratteristiche autoritarie, anzi le incrementa, per governare le dinamiche sociali.
L’obbiettivo non è quello di mettere qui a fuoco in modo approfondito la natura dello stato neoliberista e le sue trasformazioni e invarianze di fronte all’approfondirsi della crisi, ma quello di provare a capire quali sono le forze motrici della governabilità statale dell’oggi attraverso il governo Meloni.
Come già abbiamo provato a fare mettendo a fuoco la manovra economica, e i primi passi del nuovo esecutivo, occorre delineare e figurarsi collettivamente le linee di continuità con il piano Draghiano di rimessa nella carreggiata dei diktat europei, dopo la sbandata dei governi giallo-verde e giallo-rosso. Il piano del PNRR, non ha cambiato la sostanza dei paradigmi del capitalismo nostrano ma anzi ne ha amplificato le possibilità di perdurare, caricando la spesa di questa pericolosa scommessa sulle spalle di chi lavora, attraverso il sistema del debito, che questi fondi a pioggia portano con loro. Il governo dell’oggi non interviene in maniera sostanziale nel cambiare la destinazione di questi fondi, ma inizia a costruire il piano di rientro che garantisca la solvibilità, intesa come meccanismo che blindi la tenuta sociale, quindi che a pagare siano i lavoratori e il residuo welfare-state, ossia che il debito stesso diventi strumento di governo.
Quindi gli spazi di manovra che rimangono al governo Meloni non sono nella possibilità di uscire da questo solco, a meno di sconvolgimenti all’oggi improbabili e non paventati neanche dalla parte leghista, della quale bisogna ricordare l’alleanza con i 5 stelle. Quello su cui sembra orientarsi è invece il tentativo di aumentare le caratteristiche neoliberiste dello stato preparando la riforma presidenzialista, ultima spiaggia per salvare l’establishment politico dalla crisi della rappresentanza e cercare di sbarrare la strada alle forze non allineate, come i 5 stelle. Dall’altra parte la direzione che sembra prendere il governo è quella di un intervento preventivo che disinneschi la lotta di classe, incrementando dispositivi di controllo e repressione sia nei settori riottosi del comparto operaio della logistica, imponendo una stretta al mondo delle scuole superiori, togliendo il reddito di cittadinanza per costringere al lavoro povero i giovani e i disoccupati, continuando a reprimere i movimenti territoriali come il NoTav. Inoltre, continua a farsi sempre più strada il ritorno del nucleare, proprio nel solco del paradigma di “energia padrona” che esso svolge a vantaggio del dominio.
L’esplodere delle lotte sindacali i Inghilterra, o il lungo ciclo della lotta di classe in Francia, il rinvigorirsi dei movimenti sociali e sindacali greci, rappresentano sicuramente uno spauracchio per le classi padronali e il governo, vista la dinamica economica e sociale che si delinea. Ma rappresentano anche un monito per le soggettività che si pongono il problema di una risposta di classe alla ristrutturazione capitalista. Infatti, nel nostro contesto i sindacati confederali svolgono una funzione che mira a disinnescare qualsiasi vagito di contrapposizione, e sembra difficile che al compito titanico di mobilitare il lavoro possa bastare il sindacalismo conflittuale, sopratutto a queste condizioni. Va evidenziato come le strutture di governo in Occidente siano riuscite a rendersi molto impermeabili alle istanze sociali, anche quando si esprimono con forza e decisione, si prende ad esempio su tutti quello dei gilet jaunes e di come tutte le loro istanze rimangano all’oggi attuali e irrealizzate. Certo, tornando a noi, il ruolo di protagonismo che stanno avendo i 5 stelle è un dato oggettivamente positivo per chi sta in basso, ma è superfluo specificare che non potrà bastare, soprattutto se il loro maggior risultato sul piano della ridistribuzione della ricchezza verrà spazzato via come sembra. È evidente che, anche nelle migliori condizioni di contesto organizzativo delle forze sociali, in ogni caso sia necessaria una lotta fuori dal campo della compatibilità (e di lunga durata), sul salario diretto e indiretto, sulla globalità del vivere la riproduzione sociale contro il fine sociale del sistema capitalista nell’essere e nel costruire individualità sempre più atomizzate e isolate.
Il tema del come si affronta questa nuova proposta di governabilità della crisi, è innanzi tutto legato alla capacità delle soggettività antagoniste di costruire un sapere comune, condiviso e comprensibile ai più, sulle dinamiche della guerra e la sua violenta geopolitica gravida di implicazioni sulla vita di tutti i giorni delle persone. Come lo era per la pandemia, la lettura che si da a questi fenomeni percepiti come epocali dalle persone, è già un ambito della lotta per la direzione che gli eventi possano prendere e a favore di chi. Approfondire è creare un punto di vista partigiano fuori dal politicamente corretto della sinistra e delle sue subdole retoriche opportunistiche sui i diritti, per mettere a disposizione di chi rifiuta, anche solo individualmente, le condizioni di sfruttamento, la possibilità di una lettura autonoma delle condizioni di chi vive il processo di proletarizzazione e non vuole vedersi coinvolto in una guerra di larga scala.
Se pensiamo ai movimenti sociali degli ultimi venti anni, il potere di immaginario e quindi di interpretazione di una possibilità antagonista è arrivata dalla capacità dei movimenti di tradursi in parole d’ordine semplici come “siamo il 99%” e pratiche di occupazione dello spazio pubblico delle metropoli o dei nodi produttivi e logistici della dimensione periferica e provinciale. O ancora nel sapersi rappresentare con i simboli semplici ma condivisi come i gilet gialli. Ora la domanda che si fa più impellente è come si costruisce e dove già si sta costruendo, una risposta dal basso e autonoma ai nuovi nuovi paradigmi del governo della crisi.
Le mobilitazioni “spontanee” degli ultimi anni, laddove questo termine le è stato appioppato più per una loro esternità ai contesti militanti che per un’assenza di soggettività organizzatrici, hanno avuto caratteristiche anomale rispetto alle tradizioni della sinistra, ma ad un’analisi profonda hanno mostrato specificità episodiche ma anche alcuni elementi comuni. Si vedano le differenze abissali e gli elementi comuni fra la mobilitazione dei forconi, i gilet jaunes, le rivolte contro le chiusure a causa della pandemia, o il movimento no green pass, per citarne alcune. Il primo fattore che hanno in comune è sicuramente quello di essere estranee in maniera più o meno ampia, al contesto della sinistra e anche a quello del movimento, inteso come insieme delle soggettività antagoniste. Diventa impegnativo dilungarsi qui sulle caratteristiche di queste mobilitazioni ma per approfondirle rimandiamo ad altri articoli da noi scritti interrogandoci su di esse.
Un discorso specifico vale la pena farlo per quello che riguarda la composizione giovanile e studentesca, soprattutto a fronte delle effervescenze degli ultimi due anni. Abbiamo assistito, almeno per le mobilitazioni studentesche, soprattutto a Torino e Roma, ad un forte carattere spontaneo delle mobilitazione, che anche se non sono state in grado di massificarsi, hanno creato un vissuto comune di pratiche di lotta effettive e conseguenti rispetto ai loro obbiettivi, che con le occupazioni e il blocco delle scuole hanno saputo significare praticamente lo sciopero, come astensione dalla riproduzione sociale imposta (la scuola-caserma) e lo sfruttamento della capacità umana al solo servizio del capitale (l’alternanza scuola-lavoro). Il fatto che in tanti e tante si stiano rendendo protagonisti di nuovi percorsi di militanza su queste direttrici è il risultato del fatto che le mobilitazioni sul clima degli ultimi anni, hanno scavato una nuova consapevolezza, ma che soprattutto dietro si portassero un carico di rifiuto che è rimasto inespresso ed evaso dai molti soggetti politici che queste hanno espresso. Per approfondire rimandiamo a questo importante contributo di uno dei collettivi che hanno attraversato la mobilitazione torinese.( https://www.infoaut.org/formazione/quattro-studenti-da-sette-mesi-ai-domiciliari-lo-stato-che-odia-i-giovani ).
Un altro elemento che ci sembra spingere nella direzione di un riemergere delle lotte nell’ambito della riproduzione sociale, è sicuramente quello delle lotte territoriali. Senza soffermarci sulla duratura e ostinata lotta No Tav, è un segnale da cogliere il nascere di nuove lotte territoriali come quelle in corso contro il nuovo rigassificatore di Piombino, contro la base militare di Coltano, contro il nuovo deposito nucleare di Mazzè nel torinese, per citare alcune delle maggiori. La forza potenziale che esprimono è larga e capace in prospettiva di toccare i nervi scoperti delle ricette per la gestione della crisi nel nuovo progetto di governo targato Fratelli d’Italia. Ritorno al nucleare, diventare hub mediterraneo per la rigassificazione del Gpl americano, sviluppare e supportare il bellicismo NATO.
Rimediare a questa estraneità dalla generale composizione proletaria che nel prossimo passato si è mossa in maniere nuove ed incostanti, è forse il compito più arduo che si pone nel futuro, e pone come presupposto uno stile di militanza che va in molti casi rinnovato con l’obbiettivo di praticare realmente un’internità alla composizione proletaria, che vada oltre l’evocazione della possibilità di esserne avanguardie.
Innanzitutto, non si deve incorrere nell’errore di sovrapporre l’immaginario delle lotte operaie del passato a quelle nuove ma studiare approfonditamente come le soggettività che animano queste mobilitazioni vivano il conflitto con la società e la post-modernità in generale, senza indugiare in operazioni di comodo che cancellino utilitaristicamente il profondo individualismo nichilista in cui tutti siamo immersi. Dall’altra parte bisogna saper riconoscere l’organizzazione spontanea che lì dentro si è data e saperne trarre gli insegnamenti necessari, per essere al posto giusto ma soprattutto al momento giusto, senza calcoli di comodo. Questo a patto di vedere il processo delle lotte non come un semplice sommarsi di mobilitazioni ondivaghe, ma come un processo in cui la soggettività è la protagonista e la soggettività militante antagonista è la rete che ha la possibilità di spingerla in avanti e di potenziarne il corso di sviluppo.
Possono sembrare astratti assunti generali buoni per ogni stagione, ma in realtà, anche se è corretto dire che il metodo arriva da lontano, è importante capire cosa voglia dire nelle condizioni dell’oggi praticarlo ed aggiornarlo, a fronte di un dibattito interessante sulla “convergenza delle lotte” che negli ultimi tempi ha trovato spazio e interrogato i cosiddetti “ambiti” della militanza. È difficile qui ricostruire le diverse sfaccettature di significato che alla parola convergenza delle lotte sono e potrebbero essere date, ma l’evocazione che si impone maggiormente è quella di una riunione comune delle lotte e delle vertenze per una più proficua incisività. Anche se è sicuramente un buon inizio e ci si pone, almeno negli intenti, l’obbiettivo di essere efficaci nei termini della contesa nella gestione dei costi della crisi capitalista, non è sufficiente fermarsi a questo punto del ragionamento se si vuole essere conseguenti, a fronte soprattutto degli esiti incoraggianti di alcune cortei che si sono posti questi obbiettivi. Se allora “convergenza” ha la sua radice di significato politico nella ricomposizione delle lotte, diciamo che questa si può solo praticare nel conflitto e non solo nella sua rappresentazione. L’internità alla composizione (iper)proletaria si da nella capacità delle militanze di trasformare il rifiuto delle condizioni di riproduzione sociale imposte dal capitale in “presidi” permanenti di relazioni sociali in cui il rifiuto e il “no” siano fondativi e incompatibili con le istituzioni che quella stessa riproduzione impongono. Praticare la “convergenza delle lotte” non come sommatoria, ma come base per la costruzione dell’autonomia collettiva dentro processi di soggettivazione del dominio, stando nella spontaneità dei movimenti dal basso e organizzandola come contropotere effettivo.
Concretamente, si tratta di organizzare e creare relazioni, in cui l’obbiettivo a “medio termine” sia imporre una rigidità ed un rifiuto effettivo al processo di proletarizzazione che violentemente viene imposto dall’alto, cercando il più possibile di rifiutare le rappresentazioni e le categorie che la sinistra e il progressismo hanno cercato di imporre alle lotte. Porsi il problema della convergenza anche lì dove le pulsioni sociali non hanno assunto già delle caratteristiche politiche date ed esplicite, ma si muovono sotterranee ed contraddittorie significa allo stesso tempo maturare una capacità di previsione collettiva di questi conflitti potenziali e una capacità di traduzione, di trasmissione della complessità in cui queste pulsioni sono collocate all’interno di una proposta complessiva, comprensibile e credibile per delle fasce di popolazione sempre meno alfabetizzate alla politica politicata e sempre più disinluse dall’azione collettiva. Come si “convergerà” nelle lotte, quando il caro-vita e l’inflazione, l’austerità in generale imposta dall’Europa, risveglieranno quelle mobilitazioni “spurie” come i Forconi, per esempio, o gilet francesi?
Scommettere su questa tendenza che hanno avuto in passato le lotte, ci sembra il compito del presente, laddove l’ipotesi è intrecciarsi nelle relazioni sociali che le producono e che le portano avanti in modo sotterraneo, coscienti che l’immaginario della sinistra, soprattutto istituzionale e riformista, è stato e, probabilmente sarà, visto come nemico. Porsi fin da subito il problema di come chi si muoverà su questo terreno, potrà trovare un linguaggio comune a chi già si mobilita, con tutte le ambivalenze e ambiguità rispetto al capitalismo green, nella difesa dell’ambiente e contro il riscaldamento climatico.
Prevedere in anticipo che tutte le forze residuali del sindacalismo confederale agiranno una funzione di marginalizzazione di queste insorgenze è al minimo un atto di buon senso, e sperare che essi possano con qualche vagito di mobilitazione detonare in proteste più ampie, sembra oggi abbastanza improbabile. Ma queste condizioni date dalla debolezza soggettiva del panorama complessivo, sia delle compagini storiche del movimento sindacale, che delle soggettività di movimento, può assumere le forme della possibilità. Laddove lo spazio politico è vuoto lo è nel senso dell’assenza di soggetti organizzati in grado di rappresentarsi come portatori di interessi di parte.
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