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Il pinocchio Renzi e le insidie del paese dei balocchi

Ennesima contrazione del PIL e della crescita rispetto alle previsioni del governo Renzi (come quelle del governo Letta, del governo Monti, del governo…) mentre il dibattito parlamentare e mediale si accapiglia sull’istituzione di un senato non elettivo, all’attuale comunque favorevole al partito-sistema PD al potere in quasi tutte le principali amministrazioni locali italiane. Un 1,1% di ammanco che equivarrebbe all’ennesimo dejavu di quelle fiction stracotte – somministrate dall’impietoso palinsesto nazionale ai sempre più numerosi martiri delle metropoli di agosto – se le implicazioni non fossero drammatiche per la luna di miele del rottamatore.

Il posto del pinocchio di Rignano sull’Arno sembra essere al volante di una rombante monoposto nel Paese dei Balocchi (o del Capitalismo-Casinò?) il gettone lo paga il contribuente, e, come in tanti videogiochi, corsa forsennata a suon di sgommate (e mirabolanti promesse) fino al prossimo “extended play” – il credito di tempo man mano accordato per la propria abilità di guida. Almeno fino alla diffusione del dato statistico successivo. Si chiami Wall Street Journal o Commissario Katainen, Carlo De Benedetti o Sergio Marchionne, chi ha “investito” su di lui vuole battere cassa sotto forma di accaparramento di patrimoni mobiliari e immobiliari e  risorse naturali e culturali; liberalizzazione dell’economia a prezzo delle più elementari tutele sul posto di lavoro dipendente (per chi ancora l’ha) ed ulteriore precarizzazione di chi queste tutele non le ha mai avute (lavoro autonomo); alienazione secca di servizi strategici come sanità ed istruzione per ripagare debiti fittizi impennatisi sull’onda della leva speculativa. E, davanti ai magri risultati, è pronto a far calare il “game over” sulla galoppata di chi si voleva incoronare purosangue e ora potrebbe finire ciuchino.

Per Renzi è la fine dell’illusione di qualsiasi margine di autonomia e possibilità di mediazione politica (verso l’alto e il basso) in questa nuova “fase suprema” del capitalismo. In cui l’imperialismo finanziario della crisi, per espandersi e rilanciarsi, non solo demolisce territori ed ecosistemi tra grandi opere e grandi eventi.

Ma può procedere più spedito di chi aveva fatto della velocità la sua stessa bandiera. E potrebbe finire, nella sua autoreferenzialità ed iper-competitività, per bruciare il capitale istituzionale e (mal)gestionale alla base della propria legittimazione. Ma, tornando al presente, nessun governo alle condizioni attuali (crescita massima dell’eurozona attorno all’1% da anni; politiche monetarie restrittive della BCE che attaccando l’inflazione impediscono la diluizione del debito; nessuna capacità o volontà italiana di pretendere una ristrutturazione, nemmeno rispetto agli interessi, di quest’ultimo) può passare indenne al varco dei 50 miliardi annui di versamento previsti dal Fiscal Compact per 20 anni a partire dal 2015.

E dopo? E dopo c’è chi non più agita, ma addirittura si augura l’arrivo della Trojka come in Grecia. Vaneggiamenti come quelli di chi, ormai nella fase terminale della propria esistenza e dopo una vita passata a millantare come pietre angolari le macerie prodotte dal saccheggio capitalista, ha il sommo ed infame egoismo di proclamare: “ancora una volta, al diavolo chi verrà dopo di me, che me ne importa, se la sbrighino loro!”. Ogni riferimento ad Eugenio Scalfari è puramente voluto. Sintomo comunque di una classe politica e mediatica ormai pericolosamente (per loro) autoconvintasi di poter servire anche il piatto più indigesto allo stomaco di ferro degli italiani. Che, bontà loro, all’ennesimo fallimento delle istituzioni saranno accusati di essere litigiosi, incomprensibili e, peccato mortale, “non sapersi governare!”. Davanti al fallimento complessivo e sistematico di un’intera classe politica (5 governi in 8 anni, che nemmeno con la macelleria sociale ed una pressione fiscale-monstre ormai quasi al 50% riescono ad impedire l’ennesima manovra-tributo!) osiamo dire che non c’è mai stato bisogno come ora di conflitto, incomunicabilità con queste istituzioni e rifiuto del loro governo predatore.

Affinché, come intravediamo in un’estate 2014 un po’ più movimentata del solito in termini di conflitto sociale, la promessa di mille giorni caldi per il burattino di Palazzo Chigi si realizzi. Come quella, per i signori del paese dei balocchi, di una previsione di opposizione sociale una spanna più complessa delle loro infallibili statistiche.

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