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Il “profughismo”, ideologia della Fortezza Europa

Una delle novità di questa estate segnata dalle migrazioni è stata il dispiegarsi di una nuova ideologia dell’accoglienza selettiva: il profughismo. Secondo questa rappresentazione, i flussi migratori andrebbero classificati dietro criteri di legittimità che distinguano i migranti “bellici” o “politici” da quelli meramente economici, assicurando soltanto ai primi timbri e firme necessari per restare. Questa impostazione è, da un lato, del tutto in linea con la storia recente delle politiche migratorie, fondate sul principio secondo cui viaggiare costituisce un’attività da sottoporre a prescrizioni selettive, con particolare riguardo alla funzionalità dei migranti nei processi di estrazione del valore. Dall’altro, compaiono elementi di innovazione che è necessario ricostruire.

La categoria giuridica di profugo, o rifugiato politico, non nasce con la retorica di queste settimane. Tuttavia è adesso che sembra assumere particolare centralità nel discorso politico. Le istituzioni europee hanno sempre avuto la tendenza a ignorare, ove possibile, la presenza sui propri territori di migranti “non economici”, proprio perché i requisiti giuridici di cui questi disponevano ne facevano individui scomodi da amministrare: donne e uomini la cui “accoglienza” era imposta dal diritto internazionale anche là dove non sussistesse l’accesso a una borsa di studio o l’invito per un posto di lavoro. Meglio insistere sulla disciplina degli ingressi ordinari, connettendo il rilascio dei visti con la pregressa assunzione, e cercando così di distinguere il presunto viaggiatore disciplinato da quello allo sbando, potenzialmente foriero di problemi per l’ordine pubblico.

I flussi degli ultimi mesi hanno reso necessaria una nuova impostazione, di cui il governo tedesco ha tentato in queste settimane, con altalenanti risultati, di promuoversi capofila. Le migrazioni odierne sono il prodotto degli sconvolgimenti politici del Nord Africa e dell’Asia occidentale. Pesano le guerre civili in Libia e in Siria: la prima per aver da tempo aperto falle nella gestione draconiana dei flussi subsahariani che Gheddafi aveva, a suo tempo, concordato con Berlusconi; la seconda per aver condotto milioni di persone dalle regioni siriane verso paesi a loro volta instabili come l’Iraq, il Libano o la Turchia, e aver quindi prodotto il desiderio di proseguire il viaggio verso paesi più ricchi – quelli dell’Europa settentrionale.

In questa situazione dove, pur senza cadere nella propaganda allarmistica dei media ufficiali, i numeri dei migranti sono notevolmente aumentati – così come la loro determinazione a passare le frontiere e raggiungere le mete prescelte, anche a costo della resistenza all’identificazione e alle violenze delle polizie – i capitali europei non hanno smesso di avere bisogno di mano d’opera a basso costo, ma al tempo stesso non possono rinunciare, per tramite delle classi dirigenti, a trarre beneficio dall’astio (preesistente o indotto) di gran parte delle popolazioni provate dall’austerity verso le masse dei nuovi arriva(n)ti. Il rinato interesse per la categoria del “profugo” è il nuovo criterio per amministrare l’esclusione là dove il ricorso alle ordinarie procedure non appare possibile.

Questo non significa che il criterio economico non continui ad essere motore dell’azione istituzionale. Il governo Merkel, per conto dell’imprenditoria tedesca (ma in contrasto con talune tensioni della Germania profonda), guarda con interesse all’ingresso dei migranti siriani attualmente in viaggio dalla Turchia. Appartenenti spesso a ceti istruiti, provenienti da un paese dove il sistema educativo è piuttosto avanzato, non di rado importatori di una forza lavoro specializzata o di tendenza cognitiva (al contrario di migranti in gran parte orientati a occupazioni generiche provenienti da altri paesi) essi sembrano rappresentare una merce umana potenzialmente fruttifera per le aziende tedesche. Un simile piano rende necessaria, tuttavia, un’efficiente burocrazia dell’immigrazione. Per questo i paesi di frontiera, come l’Italia e la Grecia, sono in queste ore spronati a istituire con celerità e rigore centri d’identificazione, classificazione e deportazione (gli “hotspots”) che permettano un ingresso ordinato verso i confini settentrionali (presupposto necessario per l’ingresso dispiegato alla fase fattuale della “solidarietà” tedesca).

Non è tutto. Notoriamente la Siria rappresenta un obiettivo militare per gli Stati Uniti e la Francia, come a suo tempo la Libia, che fu gettata nel caos dai bombardamenti (anche italiani) del 2011. Incentrare l’attenzione sulla tragedia umanitaria siriana può anche avere, per le potenze europee, un tornaconto propagandistico-militare, preparando le proprie popolazioni all’evenienza di un intervento armato. Il fattore politico-militare è prepotentemente all’opera in tutta la fase attuale. La svolta nord-irachena del 2014 ha aperto una fase di instabilità che ha liberato, secondo linee-forza contrastanti, energie e spazi per numerose contraddizioni sopite, latenti o pregresse nell’Asia occidentale: dalla crisi dei regimi arabi e dei governi-fantoccio all’eredità politico-militare delle resistenze afghana e irachena, fino all’approfondirsi della contrapposizione sunnita-sciita e alle irrisolte questioni kurda, libanese, palestinese.

Ciò che accade non è che uno degli effetti collaterali di questo multiforme incendio, e i migranti odierni, come quelli di tutti i tempi, portano con sé questo bagaglio di tensione politica e sociale. Non a caso assistiamo a dinamiche migratorie che, da Ventimiglia a Calais, passando per Gevgelija e Rozske, assumono i caratteri di vere e proprie ribellioni. Sarebbe allora miope ignorare le contraddizioni che muovono lungo il pianeta assieme agli esseri umani, così come quelle che abitano gli esseri umani che si aggirano per il pianeta. L’universo migrante non è uno spazio evanescente ed etereo, ma un universo materiale lacerato, frastagliato, stratificato. Possiamo dimenticare i barconi giunti in Sicilia con libici, siriani e maghrebini autorizzati a respirare, e bengalesi e pakistani assassinati nella stiva, assieme a subsahariani schiacciati a morire sul fondo del fondo, sotto a poppa, in una terribile gerarchizzazione  razziale dell’accesso alla speranza o alla morte degli esseri umani?

È questa procedura di selezione, filtraggio e gerarchizzazione – tanto nella forma selvaggia del mercato illegale, quanto in quella giuridica del mercato istituzionale – che dobbiamo, oggi, rifiutare con estrema chiarezza. Il richiamo diffuso a una solidarietà caratterizzata dalla retorica “profughista” può allora, in questo momento, assumere un significato pericoloso e ambiguo. Occorre smontare l’idea secondo cui le condizioni economiche non costituiscono un fondamento legittimo per la decisione di partire, considerato non soltanto che il benessere e il malessere economico delle diverse aree geografiche e classi sociali sono interconnessi, ma anche che le dinamiche di guerra e persecuzione politica hanno origini economiche di volta in volta individuabili.

La critica delle politiche di morte e subordinazione portate avanti nel Mediterraneo non può, infine, appiattire le nozioni di libertà, oppressione o guerra sulle definizioni proprie – secondo una rappresentazione parziale, storicamente situata e politicamente insufficiente – del diritto internazionale. Se i benefici del diritto acquisito vanno sempre rivendicati, là dove conquiste storiche affiorano nelle sedimentazioni giuridiche in seguito alle lotte e agli sconvolgimenti passati, nostro interesse è costruire la contrapposizione viva per il cambiamento, dentro gli sconvolgimenti odierni. Una contrapposizione che si nutre di una solidarietà diversa da quella (ipocrita) delle istituzioni, che con i confini degli stati supera anche la staticità di categorie giuridiche senz’altro ambivalenti, ma piegate dal discorso dominante alla necessità di amministrare, gestire e controllare nuove e temibili contraddizioni sociali.

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