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Ipotesi dal voto siciliano

 

 

La chiusura degli scrutini, avvenuta nella notte di lunedì, ha confermato gli exit-poll di domenica e le proiezioni sullo spoglio, ufficializzando l’elezione del nuovo presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci con il 40% delle preferenze. Vince dunque la coalizione di centro-destra che ottiene anche la maggioranza dei seggi al parlamento regionale: 36 su 70. Già nelle prime analisi pubblicate avevamo ampiamente parlato della bassa affluenza alle urne e di quanto questo dato – superiore al 53% – dia la misura della sempre maggiore sfiducia della gente nei confronti del meccanismo stanco della delega e di chi si candida a ricoprire cariche politico-istituzionali. Alcuni sondaggi di pochi giorni fa, del resto, sottolineavano come non più del 12% dei siciliani possa dire di avere fiducia nelle istituzioni pubbliche. Questo senso di ribrezzo nei confronti delle classi dirigenti pare più forte e diffuso tra i settori sociali più bassi, quelli esclusi dalla distribuzione della ricchezza sociale prodotta e da ogni tipo di politica di inclusione sociale. In attesa di dati più precisi sulla distribuzione del voto di domenica alcune statistiche già aiutano però ad approfondirne meglio alcune sfaccettature e a formulare delle prime ipotesi politiche.
I dati raccolti dall’agenzia SWG e ansa centimetri, infatti, riportano un 83% di astensionismo tra i poveri, 61% tra chi ha un livello di istruzione basso, 69% tra le casalinghe e 75% tra i disoccupati. In particolare sembra che il voto di poveri e disoccupati sia andato per il 60% al M5S. Questo dato ci aiuta a sfatare subito un mito diffuso su giornali e social: la vittoria di Forza Italia e del centro-destra non si deve – come molti pensano – al voto “ignorante”dei quartieri popolari e dei settori proletari. Che pur hanno inciso ma non in maniera così assoluta nei numeri. Anzi.
In questa chiave – oltre che per la natura stessa del voto non-strutturato e d’opinione – appare abbastanza chiaro come le percentuali di astensionismo hanno decisamente penalizzato la compagine dei Cinque Stelle e permesso alle restanti forze politiche di organizzarsi per impedire la vittoria dei Grillini. Non è casuale che il primo intervento dopo il voto di Di Maio sia tutto incentrato sul recupero del voto degli astenuti.
E sempre da questa prospettiva le elezioni siciliane potrebbero segnare un passaggio importante rispetto alla fase politica italiana. La gestione della campagna elettorale da parte di tutti i partiti, prima ancora che l’esito delle urne, sembra dimostrare come proprio l’abbassamento “strutturale” delle percentuali di voto possa essere l’arma in più per Renzi e Berlusconi nella partita contro il M5S.
La sensazione è che segnale più forte e duro i 5s non potessero riceverlo. Anche una tornata elettorale in cui sembravano favoriti e d’importanza fondamentale in vista delle prossime politiche sembra dare l’idea che il sistema non li farà vincere! La separazione tra consenso e strumenti di governance sta di fatto favorendo la politica delle alleanze, coalizioni, accordi sfavorevoli all’affermazione di chi questi strumenti non li padroneggia.
In questo, pensiamo, che la Sicilia sia stata laboratorio politico nazionale: nel tentativo operato dai partiti, considerati di sistema, di prendere le misure al movimento di Grillo e studiare la strategia funzionale a neutralizzare il loro ampio consenso. Il centro-sinistra ha presentato un candidato che da principio non aveva nessuna speranza di vincere e ha regalato molti candidati “di peso” allo schieramento rivale. Del resto meglio Forza Italia con cui accordi e spartizioni si sono sempre fatti che non Cancelleri e i grillini. Berlusconi, dal canto suo, ha dovuto solo fare un po’ di conti e, capito che sarebbero bastati appena 800.000 voti per vincere, ha semplicemente chiamato a raccolta tutti i suoi vecchi e fidati “pletori” per realizzare la sommatoria vincente.
Un simile quadro, non sappiamo se con attori che si alternano o meno, pensiamo possa replicarsi alle prossime elezioni nazionali. I limiti strutturali del movimento di Grillo in questa fase socio-politica e la capacità dei partiti “tradizionali” di prendergli efficacemente le misure come dimostrato in Sicilia ci fanno pensare che, se il quadro si ripeterà fra pochi mesi su ampia scala, assisteremo alla prima vera crisi del M5S – che se finirà a perdere tutte le partite importanti vedrà calare anche il consenso – e alla chiusura di quello che a proposito molti hanno definito il “ciclo populista” in Italia.

Il voto in Sicilia è stato dunque un voto di residuali “apparati” – idelogici anche – dei vari partiti. Un voto giocato con i volti già noti e a colpi di cavalli di ritorno. Berlusconi ha messo insieme tutti i capi feudo delle tre province più “sviluppate” dell’isola, Palermo, Catania e Messina: gli ha fatto mettere insieme i loro pacchetti preconfezionati di voti, si è ripreso la Sicilia e subito è tornato a promettere il Ponte sullo Stretto, il casinò a Taormina, ma anche un Piano Marshall di quattro miliardi l’anno per le infrastrutture le ferrovie e i porti. Una proposta che è sembrata convincere le provincie un minimo più sviluppate dell’Isola ( Catania; Palermo, Messina) animate da ceti sociali interessati a questo tipo di prospettive. Non è un caso infatti che in province più depresse come Enna, Siracusa e Agrigento, territori in cui le infrastrutture non esistono, abbia avuto la meglio Cancelleri.
Molto poco resta da riflettere sugli altri schieramenti. La sinistra guidata da Fava esulta ma non ne avrebbe motivo: finti festeggiamenti per il ritorno ad un seggio dopo 11 anni ma questi non possono nascondere la delusione diffusa tra le sue fila. La cosa appare abbastanza paradossale. Rotto il giocattolino costrutito da Leoluca Orlando (sindaco di Palermo) della grande coalizione – dagli alfaniani alla sinistra – e riproposto inizialmente anche per la regione, i partiti di sinistra hanno deciso di giocarsi l’alternatività rispetto ad un debole Pd. Ma questa non si è mai manifestata nei fatti: deboli di contenuti realmente alternativi, hanno finito per prestare il fianco ai giochi di potere tra MdP di D’alema e Bersani (non proprio il “nuovo”) e il Pd renziano. Schiacciati da questa partita ma, paradossalmente appunto, anche trainati nei loro scarsi risultati da questo screzio: non a caso tra i più votati della lista “Cento passi” risultano molti ex Pd in area MdP; come del resto da quel mondo viene lo stesso Claudio Fava. Insomma, un seggio conquistato (circa centomila preferenze) anche se non propriamente “radicale”.
Infine i risultati di Salvini e Meloni. Tanto viscidi quanto scaltri due segretari hanno sfruttato l’onda lunga del successo di coalizione per ottenere un risultato comunque non indifferente: 3 parlamentari della loro lista sederanno all’Assemblea regionale siciliana. Hanno unito le forze in una sola lista e pur non aumentando i loro consensi specifici nell’isola (con eccezione una piccola crescita tra Catania e Messina) riescono a raggiungere l’obiettivo prefissato. Un segnale non prooprio positivo ma riconducibile più alla capacità di costoro di costruire apparato e classe dirigente attraverso vecchi “lupi” dei partiti siciliani che non una vera crescita sociale e di consenso diffuso.

Così mentre a destra si festeggia e ci si candida al ruolo di competitor credibile anche sul piano nazionale; mentre nel Pd e a sinistra ci si azzuffa alla ricerca dell’equilibrio che non c’è; mentre sui social neetwork si imputa alla rozza ignoranza del popolo la sconfitta di 5 stelle e sinistra “radicale”; mentre continua tutto questo teatrino, animato da attori di discutibile qualità, lo spettacolo perde sempre più spettatori; restano pian piano solo gli inguaribili nostalgici o i ricchi abbonati storici: sì, ma ancora per quanto?

 

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