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Di cosa ci parla la BrExit

In Gran Bretagna è il giorno del referendum sulla Brexit, ovvero della scelta elettorale riguardo la possibilità che il Regno Unito debba uscire dall’Unione Europea o meno. Il dibattito scaturito nei mesi di avvicinamento al referendum è stato acceso, spinto dalla crescita negli ultimi mesi dell’Ukip, la forza politica euroscettica guidata da Nigel Farage che ha di fatto imposto a Cameron la convocazione del quesito; ma è stato reso infuocato dai recenti fatti di cronaca, con l’assassinio di stampo neonazista della deputata Labour Jo Cox, aperta sostenitrice del “Remain”, il quale sembra aver rimesso in discussione l’esito del voto, con i sondaggi che fino a prima dell’omicidio erano orientati fortemente verso il “Leave”.

L’Unione Europea rischia di subire uno dei colpi più pesanti alla sua architettura, dall’impatto ben più potente rispetto allo stop che francesi e olandesi diedero nel 2005 ai progetti di riforma costituzionale poi approvati in forma modificata dopo revisione. Ma questo è l’esito di una direzione politica comunitaria incapace di assicurare in alcun modo il rispetto delle sue promesse e retoriche fondative, ovunque come come in Gran Bretagna.

Nel Regno Unito infatti la disoccupazione è a livelli record, l’economia reale ristagna e sempre più persone sono di fatto consapevoli della pressochè totale impossibilità che la situazione si modifichi nel breve periodo, visto il forte sbilanciamento dei decisori politici UE verso i poteri che contano del mondo finanziario, reso lapalissiano dalle politiche di austerità adottate successivamente alla crisi dei subprime.

Lo stesso sostegno di istituzioni finanziarie come Goldman Sachs, Jp Morgan, Morgan Stanley al Remain sottolinea come Londra nell’UE sia necessario per acconsentire al ruolo deputato a livello del capitale transnazionale alla Gran Bretagna: assicurare un luogo di riciclaggio legalizzato di capitali, un paradiso fiscale costruito su una tassazione inesistente dei guadagni delle grandi società che hanno tutto l’interesse a non vedere modificata questa situazione.

L’ascesa di realtà e partiti neo-nazionalisti in Inghilterra ha giocato proprio su queste retoriche, sulla scia di quanto avviene di fatto in tutta Europa, dall’Ungheria di Orban ai CinqueStelle nostrani, dalla LePen ai tedeschi di Pegida; e sembra preannunciare la disintegrazione politica del progetto europeista dato che l’etichetta dell’euroscetticismo, nata come dispregiativa e riferita inizialmente ai partiti della nuova destra xenofoba, sembra essere sempre più da un lato un elemento catalizzatore di consenso rivendicato anche da realtà politiche di diversa ispirazione ideologica.

Il voto per la Brexit sembrerebbe così emergere come una forma di rifiuto, per quanto purtroppo non direzionata da una teoria e una prassi antagonistiche, ad uno status quo fatto da processi di globalizzazione sempre più insostenibili. La percezione di un’UE finalizzata solamente all’ingrandimento delle ricchezze e dei privilegi del mondo della finanza è ormai (questa sì) moneta comune, mentre anche da parte dell’establishment il fatto che le prospettive di rilevanza politico-economica che spinsero nel 1973 la Gran Bretagna a entrarne a fare parte non sono più adeguate all’attuale mondo multipolare iniziano a fare capolino.

Aldilà dell’esito del voto, è chiaro che l’Unione Europea è stata eletta, come prevedibile e comprensibile, capro espiatorio della difficile situazione economica che vive il Regno Unito, ormai lontano parente del dominatore della politica internazionale fino alle Due Guerre Mondiali. Le stesse contraddizioni tra il voto per il Remain del premier Cameron e quello per il Leave del suo ministro della Giustizia Gove fanno capire come anche lo stesso governo britannico sia indeciso tra il mantenimento dei flussi economici e politici con Bruxelles (ma bisognerebbe dire con Berlino) e l’obiettivo di evitare un posizionamento troppo netto contro una prospettiva decisa verso il Leave che è appannaggio di una parte rilevantissima di popolazione.

A sostenere l’ipotesi della Brexit sono soprattutto le politiche relative alle migrazioni adottate dall’UE: elementi come Farage del Partito Ukip non solo non vogliono in alcun modo attenersi ad alcun tipo di quota di ripartizione dei migranti provenienti dai teatri di guerra, ma vogliono imporre anche uno stop all’afflusso di cittadini dal continente, soprattutto di quei cittadini del Sud Europa che hanno pagato sulla loro pelle la desertificazione economica della sponda nord del Mediterraneo attuata dalla Germania e dalle cancellerie nord-europee. Per quanto espressione di rifiuto, la Brexit si andrebbe a configurare come un duro colpo alla libertà di movimento verso il Gran Bretagna, aggiungendosi ai muri fisici e burocratici che sorgono come funghi intorno e dentro all’Unione.

Questo è solo uno dei dati non confortanti che sottolineano l’assoluta mancanza di alcuna motivazione non ascrivibile al campo nazionalista a fare campagna politica per la Brexit; a fare presa sulle fasce inferiori della società britannica, travolta dai processi di deindustrializzazione e da una precarietà derivante dall’enorme competizione al ribasso sui salari, è solamente l’opzione dei vari Farage, Johnson e Gove. Il che la dice lunga sulla distanza in campo tra la realtà vissuta dai soggetti sociali e le posizioni di un Partito come il Labour, che nonostante uno spostamento a sinistra con l’elezione a segretario di Corbyn (sebbene anch’egli euroscettico), si è esposto per il “Remain” e rimane agganciato ad un’idea di sviluppo del paese ostile e invisa a gran parte della popolazione poiché già verificata nei fatti a livello di conseguenze economiche.

Un qualcosa che parla anche a noi, rispetto alla capacità di dare direzione politica alle istanze di rifiuto che vengono dal basso soprattutto dopo la recente scadenza elettorali. Istanze che impattano sulla questione delle nuove figure della povertà e delle condizioni di vita nelle periferie, dove il margine di manovra sembra poterci essere per radicare prospettive di rottura differenti dello status quo. Il radicamento sociale in certi ambiti, la giusta costruzione della nemicità e dei soggetti in campo, l’ostilità sia verso la globalizzazione del capitale sia verso il ritorno ai muri e alle frontiere sono elementi mancati nel dibattito sulla Brexit e che spesso mancano anche alle nostre latitudini. Ed è una lacuna su cui agire prima possibile.

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