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La fine del campeggio val ben un presidio (e un nuovo autunno di lotte)

Chiunque avesse partecipato, anche solo visitato, il campeggio resistente tenutosi dirimpetto al fortino militarizzato avrebbe subito capito come sarebbe andata domenica,  non solo perché da queste parti le parole hanno ancora un peso (non si fanno “dichiarazioni di guerra” né si annunciano “vittorie” che non si possono ottenere) ma molto più banalmente perché avrebbe avuto il privilegio di assistere ad un raro esempio di laboratorio sociale e politico autentico in cui le classificazioni e le categorie (black bloc, pacifista, estremista, moderato) perdono progressivamente di senso di fronte ad un processo di soggettivazione reale in cui le differenze e le reciproche antipatie delle persone che lo compongono passano in secondo piano  di fronte all’urgenza pratica di combattere un nemico molto più forte . E questo non certo per angelica bontà ma per la buona consuetudine sorta dal lungo lavorio interno di un movimento che non si rifugia nella delega e nell’ideologismo viziato (ci auguriamo abbiano potuto farne tesoro anche molti cultori del bel gesto individuale!). Le assemblee riuscivano a dirimere tutti i contrasti e rendere praticabile le decisioni più delicate. 

Il campeggio appena conclusosi è stato un’esperienza politica ed umana ricchissima, qualcosa di unico e senza precedenti per i compagni e le compagne più giovani che vi hanno partecipato. Ogni giorno presentava un caleidoscopio di iniziative e di discussione animato e sempre diverso. L’autorganizzazione della cucina e dei differenti lavori necessari alla riproduzione del quotidiano vivere la lotta, la scelta delle iniziative da compiere (tra un’uscita in valle e un assedio al cantiere) e le discussioni animate che vi avevano luogo si intrecciavano senza soluzione di continuità in un unicum spazio-temporale in cui l’assemblea tra tutti i partecipanti veniva interrotta da una cena a tutti accessibile, seguita magari da un dibattito partecipato e magari ancora da un assedio notturno al cantiere-fortino. Non di rado i momenti ludici, la bevuta di una birra o il relax in tenda venivano interrotti da lacrimogeni che catapultavano fin dentro il campeggio, lanciati a parabola dalle truppe mercenarie stanche delle libere battiture dei guard-rail in segno di protesta. Come ha detto bene qualcuno, si mangiava e discuteva “col passamontagna in tasca e la maschera anti-gas nello zaino”. I benpensanti potranno inorridire… ma ricordi così non hanno prezzo.

Ora, questo esperimento unico è stato possibile perché prima del campeggio avevamo già vissuto il capitolo altrettanto forte e fertile della Libera Repubblica della Maddalena (sepolto dai cingolati e le ruspe delle truppe di occupazione “democratiche”). Prima, nel tempo lungo di questo movimento che affonda indietro negli anni, il ciclo veloce delle trivellazioni abortite e quello mitico (tinto di leggenda) della Libera Repubblica di Venaus, dell’8 dicembre che l’ha seguito e della prima feconda resistenza di tutti sulle pendici del Seghino, dove “non passò il celerino”.

Da allora la lotta no tav ha guadagnato in popolarità e simpatia. Le sue ragioni iniziano ad essere comprese da quote sempre più ampie di popolazione, nazionale ed europea. La partecipazione a questi ultimi due mesi di lotta danno regione dell’estensione e penetrazione del discorso notav ben oltre i recinti in cui lo si vorrebbe rinchiudere. Il paragoni dei costi dell’opera con il parallelo e sempre più intensivo taglio della spesa sociale nazionale, dentro un orizzonte di crisi permanente senza soluzione  a portata di mano, è un esercizio che molti uomini e donne imparano a fare nel nostro paese. Quando diciamo “un metro di Tav è un letto in meno in un ospedale, un kilometro è una scuola in meno” intendiamo proprio questo. La gente inizia a fare i propri conti in tasca e anche ad uno Stato capace solo di ripetere un mantra abusato di due sole parole: austherity e sacrifici.

Con un passato simile alle spalle e un futuro tanto gravido di future battaglie, il movimento non può certo permettersi di prendere fiato troppo a lungo. La fine del campeggio non implica lo smantellamento delle sue strutture che anzi persisteranno in forma ridotta come presidio permanente per tutto il mese di agosto. Il calendario settembrino e dell’autunno che seguirà è già ricco di proposte in preparazione o definite, dal forum europeo sulle grandi opere all’organizzazione di una giornata torinese nelle piazze della città per far conoscere ai metropolitani il costo, sociale e politico, della grande opera. Un buon pretesto per rincontrare quella fiumana di torinesi che hanno riempito la fiaccolata dell’8 luglio e provare a costruire insieme percorsi comuni contro la crisi e la manovra di lacrime e sangue che vorrebbero farci pagare a noi che stiamo in basso. Anche su questo crediamo che il movimento no tav abbia ancora molto da raccogliere e da insegnare. Noi, in ogni caso, ci scommettiamo.

Comitato di lotta popolare no tav – Bussoleno

Network Antagonista Torinese (askatasuna-murazzi-cua-ksa)

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