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La guerra dei cretini

Se un cretino chiama un altro “cretino”, crediamo, non smettono di essere cretini entrambi; ma anche le guerre dei cretini vanno capite, e niente è meno scontato. A volte, anzi, individui o collettivi dall’aria saccente e scafata ne sanno molto meno di giovanissimi dimostranti che, alla loro prima manifestazione, incappano nel tipico pestaggio dei caschi blu. La reazione di Andrea e Deborah alle violenze che hanno subito sabato appare da questo punto di vista quasi un faro, rispetto alla foschia culturale che alcuni “gruppi nel movimento” non hanno, ancora, del tutto superato. I due hanno subito percosse anche fastidiose (Andrea ha dovuto suturare la testa con otto punti) e addirittura inaccettabili umiliazioni: un poliziotto ha pensato bene di camminare sul corpo di Deborah (si tratta di un sovrintendente della polizia di prevenzione, l’ufficio politico del ministero dell’Interno da cui dipendono tanto le Digos dei capoluoghi di provincia quanto i meno conosciuti, ma non meno ramificati, uffici di “prevenzione” presenti in ogni commissariato di zona, che “monitorano” e, di fatto, schedano i ragazzi con idee politiche “non appropriate”, quartiere per quartiere).

Tornati a casa, e immediatamente gettati nel tritacarne mediatico, questi due compagni hanno mantenuto un atteggiamento lucido e coerente: non sporgeranno denuncia perché “se non si fidano della polizia, tanto meno della magistratura”, spiegano i loro compagni, e non vogliono diventare una coppia da soap opera o da prima pagina perché sperano che quelle immagini, semmai, aiutino a “far comprendere la realtà”. Militanti pronti a tornare subito all’azione politica sul territorio, nel comitato anti-sfratti viareggino, hanno vissuto un’esperienza che è la goccia nel mare non soltanto di ciò che la polizia ha fatto durante il #12A, ma di ciò che essa compie ad ogni manifestazione che non si sottometta alle indicazioni dei cretini di vertice. Percosse e violenze gratuite, così come vere e proprie torture, avvengono d’altra parte ogni giorno e ogni notte, da parte dei cretini di base, per le strade e negli stanzini di caserme e commissariati, solitamente senza fotografi, cameraman e testimoni, quale abitudinaria prassi di corpi istituzionali che sono creati e addestrati per imporre la sottomissione con l’uso della forza. Spesso le vittime sono persone che vivono nella marginalità, o prive delle garanzie giuridiche (in teoria) assicurate agli italiani, come i migranti: quelli le cui storie vengono più difficilmente raccontate e magari, se raccontate, non vengono credute.

Possiamo quindi cestinare nella raccolta differenziata, alla voce “già sentito” e “solite ipocrisie”, le panzane di Saviano sulle “mele marce nella polizia” e sui “colleghi senza onore” (dei suoi amici carabinieri). Non esiste uomo che indossi una divisa, per difendere un sistema sociale ingiusto con la violenza (più o meno esibita o più o meno fotografata), che possa meritare alcun “onore”. Episodi come le cariche di sabato non sono nulla di eccezionale: è giusto denunciarli come tutto ciò che può, per dirla con Andrea e Deborah, “far aprire gli occhi sulla realtà”, ma il tono lamentoso e un eccessivo scandalizzarsi, che abbiamo notato in altri, denunciano semmai una sottovalutazione preoccupante di ciò che le istituzioni contemporanee sono nei fatti, e forse persino di ciò che, in fondo, implica la militanza come scelta di vita – una scelta, in un modo o in un altro, di scontro, opposta e perciò nemica a quella di chi ha scelto di farsi pagare per mantenere l’ordine pubblico. Un ordine che si è sempre, da che mondo è mondo, mantenuto in due modi: con la violenza o con l’inganno.

Questi due compagni, che ancora negli istanti successivi alle botte, sporchi di sangue e doloranti, hanno avuto la forza di rinfacciare ai poliziotti ciò che avevano fatto e di rivolgere loro il segno di “V per vendetta”, li prendiamo umilmente ad esempio. I movimenti riemergono nella storia dopo decenni di pace sociale e riflusso culturale: non è facile elaborare una concezione comune della lotta e dell’avversario, né una tattica e una strategia per fare male anziché farsi male; ma soltanto osando e rischiando potrà formarsi quella soggettività rivoluzionaria che è, ad oggi, qualcosa a venire. Una soggettività che dovrà maturare con l’esperienza, e non potrebbe per ciò stesso essere surrogata da (aspiranti) ceti politici, tanto meno quelli di chi “se avessimo avuto in mano la situazione… allora sì, le cose sarebbero andate meglio e diversamente”. Come dubitarne? Semplicemente, avremmo fatto una sfilata. Ma è tempo d’agire – di discutere e polemizzare anche, ma in positivo, in avanti. Non è ancora successo niente: i feriti e gli arresti fanno parte delle battaglie sociali se è vero che il potere non ci ama; ma non sottostare alle imposizioni di quel potere (in mille forme, che possono comprendere anche lo scontro di piazza) è l’unica alternativa alla compatibilità con l’esistente, consapevole o involontaria che sia.

L’esperienza e l’analisi di ciò che accade dovrà farci migliorare, anche sul piano organizzativo: chi potrebbe negarlo? Ma non torneremo, mai, alle pagine care ad alcuni di coloro che si sono calati, in queste ore, nei panni telematici del patetico e del saccente. Sono pagine che i movimenti hanno voltato da un pezzo. Quelle che, per fortuna, Andrea e Deborah, come molti di noi, non hanno vissuto. Quelle in cui sapevi, ci dicono, che non ti avrebbero calpestato, semplicemente perché non sarebbe mai successo niente. Discutiamo di cosa deve succedere; ma l’idea che non debba mai succedere niente, diversamente colorita e riconfezionata, è troppo spesso presupposta da chi specula sulla sproporzione di forze di cui possono, ad oggi, farsi forza i nostri avversari. Quell’idea a noi ha sempre fatto più male anche dei lividi e dei pestaggi; perché ciò che suggerisce ai cretini di calpestare la gente è proprio la certezza (mal riposta, per fortuna) che si produrrà immancabilmente l’effetto peggiore: quello della rinuncia.

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