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La guerra oltre la guerra: che fare?

Partiamo da un assunto: le forme di opposizione alla guerra del ciclo no global-no war sono definitivamente esaurite. Non solo per l’ingenuo e impotente pacifismo che lo caratterizzava, che alla prova dei primi bombardamenti in Iraq ha condotto allo sciogliersi come neve al sole un movimento che aveva portato in piazza decine di milioni di persone in tutto il mondo. Ma innanzitutto perché quella forma di espressione era in gran parte propria di un ceto medio che sentiva la fine dell’illusione neoliberale peró non ancora il feroce attacco portato dalla crisi alle proprie forme e qualità di vita. Ora che quel ceto medio é esploso ed é stato in larga misura colpito da processi di declassamento e impoverimento, é altresì evidente come la guerra assuma caratteristiche parzialmente nuove: non é più solo quella guerreggiata, e si dispiega senza arruolamento di massa, eserciti regolari, tempi e luoghi definiti. Alla crisi permanente corrisponde una guerra permanente, stratificata, diffusa. Non é quindi possibile opporsi alla guerra senza opporsi alla devastazione sociale prodotta dalla crisi.
Questa nuova forma l’Isis l’ha ben compresa. La sua struttura organizzativa, infatti, fa della flessibilità uno dei suoi punti di forza, con almeno tre caratteristiche. Innanzitutto, il presidio dell’ideologia religiosa non le impedisce di adattare e utilizzare discorsi molto differenziati a seconda delle specificità territoriali e sociali a cui si rivolge. In secondo luogo, la forza economica e finanziaria del vertice é usata non solo per far fronte ai costi della struttura bellica, ma anche per aggregare una base ampia di militanza e consenso transnazionale attraverso una salarizzazione diretta o comunque una parziale redistribuzione della ricchezza finalizzata al proprio rafforzamento. Infine, l’Isis é in grado di utilizzare e piegare ai propri obiettivi tutto, anche e forse soprattutto ciò che non organizza o addirittura le é in sé estraneo. Questo aspetto é rafforzato esponenzialmente da una corretta comprensione del funzionamento dei mezzi di comunicazione e dei meccanismi della virilità.
In questo contesto, allora, come é possibile immaginare nuove forme di opposizione alla guerra? Gli imminenti bombardamenti in Libia rende tale interrogativo ulteriormente urgente sul piano dell’immediata pratica politica. C’é una forma di opposizione, basata sul pacifismo, che oltre a essere velleitaria é già occupata dalla Chiesa, ancor più quella della politica francescana. Contendere questo spazio di mercato politico sarebbe inutile oltre che per nulla interessante. Dobbiamo invece avere la capacità, anche in questo caso, di collocarci dentro le ambigue espressioni soggettive della composizione sociale più direttamente colpita dalla crisi. Qui ipotizziamo che un discorso con una capacità espansiva sia quello della contrapposizione ai politici e alle istituzioni che, per i loro tornaconti di potere, mettono in pericolo le nostre vite. Un discorso, cioè, che si muova dentro un terreno maledettamente materiale e per nulla ideale. Il Pd é al soldo degli interessi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, oltre che delle proprie lobby e clientele; la Lega finge di preoccuparsi della “nostra gente”, ma in realtà la espone al rischio di ritorsioni e attentati coinvolgendola in operazioni belliche che non ci riguardano. A ciò si aggiunge che questo tipo di guerre gonfiano i profitti delle industrie degli armamenti e del loro circuito logistico, senza tuttavia permettere un aumento in termini occupazionali o di welfare militare.
Ecco il terreno spurio e contraddittorio, potenzialmente mobilitabile, in cui dobbiamo situarci, con attitudine all’inchiesta e capacità di indicazione. Il dibattito che si sta aprendo sul piano istituzionale rispetto alla concessione delle basi militari può essere un’occasione. L’annunciata (almeno per ora) opposizione del M5s é indubbiamente pregna di ambiguità, la rispecchia e in qualche modo la rappresenta. C’é dentro una sorta di protezionismo nazionale, e tuttavia é combinato con un dato che dobbiamo far nostro e piegare in un’altra direzione: la percezione diffusa di non voler vedere un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni di vita per gli affari privati di chi governa.
Attenzione: questo spazio di possibilità potrebbe non durare molto. Ci fosse un attentato in Italia, per esempio, cosa succederebbe? Potrebbe esserci una risposta in termini di unità nazionale, per noi mortifera. Oppure, al contrario, potrebbe esserci una risposta sociale contro i governanti responsabili di averci trascinati in una guerra non nostra, ovvero nelle loro guerre che si alimentano dei nostri morti. Molto dipenderà da quello che succede nel frattempo, e dunque pure da ciò che siamo in grado di costruire, provando a esplorare l’ignoto sociale, a stare dentro, utilizzare e in prospettiva direzionare anche (o soprattutto) ciò che non riusciamo a organizzare.
Negli ambiti di movimento ci sarà certo chi, per pigrizia o per opportunismo, farà appello all’eccessiva complessità della situazione per giustificare le proprie insufficienze e l’incapacità di agire, oppure alla barbarie dell’Isis per non schierarsi se non con un vago pacifismo umanitario subalterno alla Chiesa. Ecco quello che non va fatto. Ci sarà anche chi accuserà le nostre posizioni di pericolosa ambiguità, senza rendersi conto che le ambiguità sono nella composizione sociale, non nelle parole che la descrivono. La scelta é tra provare a giocare la partita, oppure consegnarsi a una supposta purezza che puzza di marginalità e opportunismo. Soprattutto in fasi come questa non esiste un fuori dalle ambiguità sociali per chi voglia trasformare lo stato di cose presente. A non essere per nulla ambigua deve essere la direzione progettuale, e su questo rilanciamo la discussione militante.

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