L’amico americaNo
“Don’t worry, mr. Renzi”. È dovuto intervenire l’ambasciatore americano per rassicurare un premier ancora accalorato dall’esordio forsennato nella nuova stagione del RenziScappaTour. Da Catania, a Napoli, e ieri a Milano, la scorta del Premier rimane solo l’agente. Che succede al governo?
Al di là dei cori sciovinisti che lamentano l’ingerenza del diplomatico a stelle e strisce la dichiarazione di John Phillips in favore del Sì strappa la partita sul referendum costituzionale al romantico scontro sui padri della Repubblica (dài Sinistra, anche Benigni ti ha voltato le spalle!), e rompe il giocattolo allo stesso Renzi. La comprimarietà del presidente del consiglio in questi recenti passaggi e la sua difficoltà anche solo ad aprir bocca lo annunciano sul viale del tramonto? Questo non è dato saperlo a oggi, ma certo ora è esplicito come le proporzioni dello scontro che si profila sul referendum costituzionale si riferiscano a un’operazione di riassetto sistemico. Garantisce lo zio Sam.
Non per coraggio politico Renzi si è infilato in questo pertugio strettissimo del referendum sulla carta costituzionale. La strada l’hanno tracciata altri, per altre e più alte esigenze di dominio sistemico. La pacca sulla spalla dell’ambasciata USA lo conferma. Inoltre la via ora si stringe ancora, incrociandosi con i prossimi tornanti della crisi europea.
Il quadro continentale, minato dal precedente greco (com’è quella cantilena che intona anche Mattarella in risposta all’ambasciatore USA: “la sovranità appartiene al popolo”? Già, come OXI…) e dalla Brexit, evolve verso un modello a cerchi concentrici. La promozione al nucleo duro dell’area euro richiede il varo di riforme strutturali. La stessa Francia finisce sul banco degli imputati e procede alla demolizione del code du travail, già di fatto scavalcato nell’ordinarietà dei rapporti di sfruttamento. Basterà? Forse no, intanto su questi movimenti si inaugurano nuove rigidità sociali e di là delle Alpi il secondo tempo delle agitazioni contro la Loi Travail è tutto da giocare. Dalle nostre parti il Jobs Act non è stato sufficiente e la sterzata sulla modifica dell’impianto costituzionale testimonia di una tendenza più profonda. Le cartucce per fronteggiare la crisi scarseggiano. Le politiche monetarie, le uniche praticabili entro la governance neoliberista, sono al capolino. Il quantitative easing targato Draghi minaccia di produrre nuove bolle inflazionistiche e segna il passo a una verticalizzazione delle forme di governo capaci di garantire spazi di insediamento agli investimenti evocati dai funzionari di Obama.
Qui sta un corno fondamentale del problema. La crisi è crisi di realizzazione del valore. Ma agli effetti di questa crisi, sia quelli dello scontro di classe in atto (crisi occupazionale, crollo dei redditi anche e soprattutto per le fasce giovanili, processi di proletarizzazione diffusi) sia quelli prodotti dentro una linea di sviluppo (la tendenziale automazione dell’attività-lavoro dalla produzione ai servizi), corrisponde non una liberazione delle forze umane ma un maggiore asservimento del lavoro vivo. Il nodo del dominio attraverso il governo resta risorsa strategica ultima del legame capitalistico per mantenerne invariate gerarchie e interessi esistenti.
Davanti a tutto ciò la Costituzione non è che una vecchia mummia? Non c’è dubbio. Il rapporto capitale/lavoro che interpretava è oramai sbriciolato ma il nodo qui è un’altro: quali forze e quali altezze impongono una nuova dimensione costituente? Non c’è una risposta di sistema che soddisfi la domanda di integrazione di un’umanità eccedente davanti a questa crisi e quindi, volando più in basso, la dimensione di praticabilità delle riforme, la Renzi-Boschi compresa, risponde alla garanzia minima della riproduzione dei livelli di dominio esistenti scambiati per stabilità.
Per cosa passa la stabilità? Passa per il limes europaeum e i 200 parà inviati in Libia per controllare i pozzi strategici e regolare l’Equilibrio Europeo compensando le tensioni interne con le nuove forme di presenza militare nel caos oltre la Fortezza. Passa per il via libera alla predazione dei territori nell’impossibilità di organizzarne una valorizzazione.
Sotto questo riguardo, tra i tanti aspetti, tra quelli più prosaici della riforma Boschi, lo svuotamento dei poteri locali e delle loro competenze con la riforma del titolo V rappresenta uno degli assi principali. Quante battaglie sui territori – di democrazia, e lo diciamo senza enfasi ma ancora interessati solo a quanto in questa parola residua di uno spirito di partecipazione e di fiducia nella cooperazione umana per fini autonomi – hanno trovato e vinto il proprio nemico perché nemico prossimo? La riforma restituirà allo Stato – ma in realtà ai livelli sovraordinati di normazione e governance europea – le competenze sul governo dei territori in materia di protezione civile, produzione e distribuzione dell’energia, infrastrutture strategiche. Insomma ci troviamo tra l’economia della catastrofe e un modello predatorio segnato da una buona dose di governismo? Sembra di sì, ma al contempo scorgiamo delle possibilità nell’emergere di un primo protagonismo delle dimensioni sociali colpite dalla ristrutturazione delle forme di governo traghettate – per ora – da Renzi: dall’universo dei risparmiatori, alle dimensioni del lavoro salariato voucherizzato, alle agitazioni del mondo della scuola. Uno scontro anche e soprattutto sulla possibilità di decidere e riconquistare dimensioni di autodeterminazione. Non passerà tutto dal referendum, certo, ma in questo passaggio, c’è del materiale sufficiente per dire quantomeno NO! Con buona pace dell’amico americano.
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