L’Italia e il Mediterraneo in rivolta
Il 15 ottobre si svolgeranno in tutta Europa le manifestazioni lanciate dal movimento 15M per estendere oltre i confini spagnoli la pratica della protesta contro la casta che pretende di farci pagare gli effetti della crisi finanziaria. La scadenza di Roma ha inevitabilmente convogliato su di sé le attenzioni e le aspettative dei soggetti sociali che, in Italia, ritengono sia giunto il momento di far sentire la propria voce, e credono che, senza un’Onda Italiana, le politiche di palazzo sapranno superare la crisi istituzionale nel segno di una continuità conservatrice, antipopolare e contraria agli interessi della maggioranza. Si è diffusa in molti una consapevolezza di fondo: l’attuale condizione storica richiede un salto di qualità nei nostri comportamenti politici. Il sacrificio in piazza di Mohamed Bouazizi, il ragazzo tunisino che si è dato fuoco il 17 dicembre 2010, ha aperto una nuova fase nel Mediterraneo. Il versante meridionale è entrato in una lunga e complessa fase rivoluzionaria, in grado di modificare in modo inaudito gli equilibri sociali interni a quei paesi e quelli internazionali. Sul versante settentrionale, anzitutto con le mobilitazioni di massa che attraversano la Spagna e la Grecia – paesi che, su un diverso livello, accusano pesantemente gli effetti della crisi mondiale, diventandone a loro volta propulsori – il conflitto sociale è entrato di prepotenza nel cuore degli equilibri monetari del nuovo secolo: l’Unione Europea.
Questi movimenti non sembrano analizzabili, e tanto meno governabili, attraverso ricette precostituite; ci consegnano un’evidenza che è impossibile non assumere nell’analisi generale: si è aperta una fase politica di sperimentazione dal basso. La primavera mediterranea non è e non sarà orientale o occidentale, democratica o dispotica, pacifica o violenta: le categorie in cui è rimasto impigliato gran parte del pensiero politico degli ultimi decenni, anche all’interno dei movimenti, saranno devastate dall’impatto dei conflitti sociali che già si affacciano su questo decennio. Il dato essenziale è il protagonismo di massa di soggetti sociali nuovi, moderni, che si pongono su un livello di rottura radicale tanto con i dispositivi di gerarchizzazione sociale e del reddito, tanto con le forme tradizionali della sovranità politica e territoriale. Dalle migrazioni di massa ai flussi grammatologici di insubordinazione attraverso il web, questi soggetti si presentano come sfuggenti, ingovernabili, insensibili tanto alle imposizioni delle frontiere politiche quanto a quelle linguistiche, giuridiche, informatiche. In questo scenario crediamo sia necessario ovunque consegnare ai movimenti, alle piazze e alle lotte tutta la nuova sovranità, la voce in capitolo, la progettualità rivoluzionaria. Non ci servono “alternative” di contenimento, né sul versante di una “guida” o “gestione” della crisi da parte delle istituzioni della casta, né all’interno dei movimenti.
La crisi non è un male obiettivo, naturale ed inevitabile, senza colpevoli, senza responsabilità soggettive; e le nostre chiamate alla mobilitazione devono essere cassa di risonanza dei desideri e della rabbia sacrosanta di tutte e tutti, senza limitazioni ideologiche o programmatiche, senza sovrastrutture progettuali che esulino dalla pura e semplice necessità di riprodurre nel nostro paese e nel mondo una dinamica estesa e avanzata di conflitto sociale. Ciò di cui abbiamo bisogno sono serbatoi di mania della trasformazione, overdosi di utopia, cuori roventi, esigenza dell’imprevedibile. Cosa vogliamo da questo autunno? Cosa da questo ottobre? La piazza spagnola ci ha fornito una traccia semplice e chiara, proponendo la pretesa di una negazione pratica dell’assetto istituzionale e politico che ereditiamo in Europa: Que se vayan todos! è il loro grido, e deve essere anche il nostro. Ad ogni capo del globo, con le tende, le canzoni o le molotov, i movimenti stanno affermando che con questa organizzazione dell’economia, con questa costituzione della sovranità politica non si può andare avanti. Non si può, nei due sensi di questa espressione: perché non si vuole e perché non è più possibile. È una dimensione soggettiva e oggettiva del non potere, quella che abbiamo attorno e di fronte a noi.
E l’Italia? È la grande assente, fino a questo momento, dei processi in atto: non dal punto di vista dell’attacco alle condizioni di vita e della prospettiva di default, naturalmente, ma dal punto di vista del conflitto; è l’unico grande paese mediterraneo a non essere lambito dal fuoco della rivolta, dall’uragano dell’indignazione. Di fronte al quadro profondamente nuovo che i processi di delegittimazione dell’ordine costituito rappresentano, nella nostra penisola sembra ancora essere ingombrante la tendenza all’elemento rituale, al dejà vu, a un insensato eterno ritorno dell’identico. Si pretende di incanalare la ricchezza politica che si orienta da mesi verso l’autunno in una sfilata ordinata e disciplinata, lontana dal centro e dai palazzi del potere, come indicato dalla questura della capitale. Si vorrebbe fornire una sponda, attraverso questa scadenza, a progetti politici visti e rivisti, che intendono convogliare in un voto istituzionale il desiderio di cambiamento che dal referendum alle manifestazioni studentesche del 7 ottobre cresce nel nostro paese. A beneficio di chi o di cosa, ci chiediamo? Non ne possiamo più del rito e della chiacchiera giornalistica sull’autunno caldo: vogliamo un Autunno Infernale.
Vogliamo un inverno duro per chiunque tenti di farci pagare la crisi. Vogliamo una primavera dei movimenti. Vogliamo anni di negazione dell’esistente, vogliamo un’Italia Valsusina. Non vogliamo un nuovo-vecchio uomo della provvidenza, di destra o di sinistra, alla guida di un progetto politico scaduto in partenza. Ciò che vorremmo fosse chiaro a tutte e tutti è che la casta è finita; e quando parliamo di casta intendiamo non soltanto Berlusconi e Tremonti, Bossi e la Marcegaglia, Bersani o Di Pietro, Montezemolo, Napolitano o Marchionne; intendiamo tutte le forme della vecchia politica, ben al di là dei nomi dei partiti, dei ministri, dei presidenti e dei candidati; intendiamo anche Vendola e De Magistris, ossia coloro che intendono cavalcare la voglia di cambiamento affinché il cambiamento non avvenga mai, affinché prevalgano ancora la delega e la politica di mestiere, gli aggiustamenti strategici, il compromesso annunciato. E ci chiediamo: cosa vorrebbero elemosinare i movimenti da questi signori? E che cosa dalle istituzioni stesse? Non soltanto le chiacchiere e le illusioni, ma persino i soldi sono finiti! Resta una società polarizzata e paralizzata, l’arricchimento spietato o l’impoverimento totale, la bancarotta. È forse il momento di salire sul carrozzone dei partiti, di accettare la logica che, reprimendo e recuperando il conflitto sociale, ci ha portati a questo disastro? È forse l’ora di imporre ai movimenti sociali strutture rigide o autoritarie, prospettive non condivise, destinazioni annunciate?
Il potere politico capitalista risiede completamente, e non da ora, nelle istituzioni finanziarie globali: Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, Federal Reserve. I governi nazionali, le istituzioni internazionali o locali non sono che gli agenti dell’applicazione quotidiana di decisioni prese in quei teatri dal personale tecnico del capitalismo moderno: sono svuotate di qualsiasi autonomia amministrativa o politica. Come se non bastasse, di qualsiasi legittimità: lo si ode nell’eco dei tumulti e delle insurrezioni che agitano il mondo, che si espandono da New York a Damasco, da Santiago del Cile a Londra. L’ingresso nelle istituzioni del default non è l’obiettivo dei movimenti. Il potere politico “alternativo”, o antagonista, è nelle piazze, nelle strade, nelle rivoluzioni; è nelle assemblee di Barcellona, di Tunisi, della Val Susa. Non c’è delega, non c’è candidatura di cui in Italia, oggi, i movimenti possano comprendere il senso. Per questo crediamo che, il 15 ottobre e dopo il 15 ottobre, occorra consegnare a questo paese, finalmente, gli spazi comuni e aperti dove le istanze sociali, schiacciate dalla cappa di uno stato impresentabile e parassitario, possano esprimersi liberamente. Tutte le idee, tutte le istanze, tutte le voglie di questa società disastrata, tutte le progettualità della protesta non possono che trarre ossigeno dall’ingresso dell’Italia in questo Mediterraneo inquieto, e nell’Europa delle tre “A”: quella del conflitto sociale. L’Italia merita il cambiamento, quello vero. E non si potrà cambiarla, per davvero, senza rimetterla al centro del variopinto planisfero delle lotte sociali.
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