Meglio lo Stato del neoliberismo..?
Il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. A partire da questa rara se non unica definizione minima data da Marx su cosa sia il comunismo si può aggiungere che nel passaggio epocale all’interno del quale visse e agì il Moro di Treviri un’altra cosa era piuttosto chiara: lo Stato, invenzione politica dirimente della modernità occidentale e capitalistica, è un’entità nemica da abbattere nel processo di liberazione del lavoro dal rapporto di capitale.
Questo chiaramente induce a una ricerca di forme di potere oltre lo Stato, che sempre Marx saluta indicando nella Comune di Parigi il primo esperimento di governo operaio, pur criticandone l’incapacità di appropriarsi di alcuni snodi decisivi del potere statuale. Si dice che Lenin, alla 72esima notte dalla presa del potere, sia uscito a danzare sotto la neve nella piazza Rossa, festeggiando il fatto che il grande esperimento rivoluzionario stesse durando un giorno in più della Comune.
E’ nota la direzione che ha preso in seguito il percorso sovietico, con lo svuotamento del potere che dai Soviet tornò allo Stato. E non è certamente qui il luogo dove discuterne o dove percorrere una riflessione ampia sul problema dello Stato e del potere, ossia quello che il movimento comunista ha inquadrato come il problema della transizione.
Ma andiamo avanti con la storia. Prima e a ridosso della catastrofe della Seconda guerra mondiale è il turno dei reazionari annunciare che “l’epoca dello Stato sta giungendo al termine” (Schmitt), dopo che già Weber aveva individuato nell’estendersi dell’amministrazione e della burocrazia statale l’emersione di una “gabbia d’acciaio” che stava schiacciando i, a lui cari, valori imprenditoriali borghesi. Lo Stato sarà strumento utile invece per catturare e pacificare le istanze operaie nel tumultuoso sviluppo sulle ceneri del conflitto mondiale, laddove il welfare state farà da bacino di redistribuzione durante i Trenta gloriosi.
Con la crisi di quel modello a metà anni Settanta il problema torna a proporsi con forza. Se Foucault inizia a guardare allo “Stato come semplice peripezia all’interno della storia della governamentalità”, ecco che il neoliberalismo inizia a costituire un’ideologia per la quale lo Stato, lungi dallo scomparire, deve essere piegato a una nuova funzione. La moltiplicazione di istanze conflittuali (operaie, nere, delle donne…) non potevano più essere contenute da quella forma-Stato, lo Stato-piano dello sviluppo fordista. Ci vorranno un paio di decenni per portare a pieno regime il nuovo sistema che, è bene ricordarlo, trova una prima sperimentazione quando i Chicago Boys corrono a testare le loro teorie economiche alla corte di Pinochet.
Mentre dunque dietro la facciata della globalizzazione si afferma l’idea della scomparsa dello Stato e dell’avvenire di un mondo senza confini, in realtà si produce una profonda trasformazione che vede proprio gli Stati quali protagonisti. Gli Stati si de-nazionalizzano e cedono quote di sovranità proprio per istituire un’infrastruttura globale istituzionalizzata che garantisca l’estensione illimitata dei commerci e della produzione, anche attraverso la costruzione di nuovi enti di governo politico-economico globali.
Negli ultimi anni stiamo invece assistendo a una sorta di “ritorno” dello Stato nazionale. All’interno dello scompaginamento che stanno subendo tutte le culture politiche questo pare infatti rimanere come unico appiglio e punto prospettico sul quale provare a riorganizzare la politica, nonostante il politico già da molti decenni si sia ricollocato su una molteplicità di piani che sfuggono ed eccedono le rigidità e le dicotomie dello Stato moderno.
Il campo politico che pare venir delineandosi, spesso descritto come contrapposizione tra globalismo e sovranismo, si muove infatti, al di là delle apparenze, tutto all’interno di una logica statuale. Nel primo caso si vorrebbe dare seguito alla traiettoria neoliberale continuando a tessere le trame di un’infrastruttura istituzionale globale dove lo Stato de-nazionalizzato continua a essere motore di una globalizzazione controllata da poteri in grado di concentrarsi su scale “più alte”. Semplificando: la prospettiva, alle nostre latitudini, degli Stati Uniti d’Europa. Nel secondo caso si punta invece a “tornare indietro”, ri-dotando lo Stato di una “piena” sovranità per poter proteggere meglio “il popolo”, altra grande new entry dell’attuale fase politica.
In entrambi i casi chiaramente la linea del conflitto lavoro/capitale viene messa in dissolvenza, negate, elusa o al limite, nelle versioni sinistre, messa in fondo in subordine all’istanza politica dello Stato come unico attore capace di agency nel contesto attuale.
Ma al di là delle articolazioni astratte, dentro questi schemi rientrano sempre soggetti concreti. Chi è che, in tutti questi scenari, è il primo a “restare fuori” e a venire schiacciato?Su questo infatti, volenti o nolenti, qualsiasi impostazione politica basata sullo Stato quale paradigma dell’agire politico non può che, se c’è onestà intellettuale, convergere su un punto. Non a caso anche all’interno dei cosiddetti “populisti di sinistra” si inizia a parlare della necessità di “controllare l’immigrazione”. Segno che la situazione non è per nulla eccellente nella grande confusione sotto al cielo. Sono infatti proprio i soggetti della composizione di classe transnazionale i primi a venire per forza di cose esclusi e aggrediti da qualsiasi ipotesi politica appoggiata esclusivamente sullo Stato – col suo inevitabile correlato di territorio, popolo e ordine inter-nazionale.
Il punto politico di dibattito da affrontare, ad ogni modo – al di là delle più o meno risibili, più o meno pericolose nostalgie per un perduto Nomos della Terra o per un welfare state del quale si continua a non comprendere la natura di eccezione storica, continuando invece a pensarlo come regola da dover restaurare- non è una statuofobia ideologica, ma indicare un complessivo rattrappimento finanche dell’immaginazione politica, se non degli strumenti analitici…rischiando di finire a fare gli utili idioti della guerra tra poveri, mettendo ad esempio gli “operai” bianchi contro il lavoro migrante.
D’altronde, purtroppo, non è questa certo una novità, se si pensa ad esempio alla storica esclusione dei neri e dei migranti dai sindacati statunitensi, alle diffidenze per gli irlandesi negli studi di Engels su Manchester, così come nella tendenza ad adottare lo schema dell’eterno ritardo delle popolazioni non occidentali. Si pensi, ad esempio, a come tutt’ora episodi come la guerra di liberazione algerina siano letti, invece che come anticipazione e ritorno del politico nel movimento comunista europeo come epilogo di una storia coloniale, sempre e comunque agita esclusivamente dall’uomo bianco.
Anche a partire da queste considerazioni, i sinistri abbagli sulla necessità di schierarsi all’interno di un campo politico ostile come quello tra tra globalismo/sovranismo (o, se si vuole, tra Stato globale neoliberale e populismo/protezionismo) e le velleità di poter costruire egemonia su un terreno già costruito e perimetrato dal nemico – soprattutto in assenza di conflitti, risultano quantomai fuori asse.
Sarebbe invece molto più utile, piuttosto che questo gioco al massacro o su favoleggiamenti sulla conquista dello Stato, inforcare delle lenti che possano provare a guardare ai comportamenti di classe e ai suoi conflitti espliciti per annodare nuove teorie e nuove ipotesi di sovversione. In questo senso negli ultimi anni è difficile negare che i conflitti territoriali si sono articolati sempre lungo linee di secessione, sottrazione o indipendenza dagli Stati. Dal Chiapas al Rojava, passando per Zad e No Tav.
Così come sarebbe davvero miope non evidenziare che, restando alle nostre latitudini, le lotte più importanti sono state agite da una composizione migrante, dalla logistica alla casa. O che la linea del colore sia stata una delle componenti decisive per comprendere i conflitti come quelli delle banlieue, gli UK Riots, Black Lives Matters…senza scordare che il continuo processo di sfida e attraversamento dei confini da parte dei e delle migranti, la sua continuità temporale, è esso stesso una forma di movimento sociale di classe. D’altra parte è proprio parte di questo coraggio di classe che viene poi messo a valore nei conflitti nei nostri territori.
Insomma: se la sinistra da decenni ha abbandonato i luoghi di lavoro ora dovrebbe riprenderseli contro queste componenti di classe? Ma la miopia o la falsa coscienza arriva ancora più in là. Gli operai delle fabbriche cinesi sarebbero un esempio di lotta di classe… ma non sono forse esattamente il prodotto, quei conflitti, dell’immane migrazione interna alla Cina degli ultimi due decenni? Così come, da un punto di vista storico, l’operaio-massa non era in fondo un soggetto compiutamente migrante, prodotto dallo sradicamento della campagna (migrazione campagna-città) e dalle migrazioni interne sud-nord? Non è esattamente all’intersezione tra sradicamento del lavoro e incontro con nuove condizioni capitalistiche che si producono spesso i maggiori conflitti?
Queste considerazioni ovviamente non sciolgono il problema di come attivare politicamente anche altre componenti di classe al momento supine, silenti, totalmente immerse in campi politici avversi. Non si tratta infatti di certo di fare un “partito dei migranti”!! Nessuna romantizzazione delle migrazioni è qui in gioco, né tantomeno l’individuazione nei migranti di un nuovo soggetto rivoluzionario in sé. Si tratta più umilmente di guardare ai conflitti in corso e a quali sono gli strumenti di governo in atto per domarli. E il divide et impera della guerra tra poveri mossa dall’alto è attualmente, tra questi, uno dei più potenti. Pensare di agirlo prendendone il controllo è sinceramente posizione insostenibile, e che nella storia ha prodotto spesso mostri. Anche se nei rapporti di forza attuali più che mostri pare produrre mostriciattoli.
Per concludere, è davvero tanto desiderabile ritornare allo Stato e alla sua politica in quanto “meglio” del neoliberlismo? E ancora, davvero questi due blocchi sono in effettiva e inconciliabile contrapposizione? E che sia su questo campo di gioco che come compagne e compagni è necessario schierarci? Sono probabilmente altre le domande da porsi da qui agli anni a venire, più “basse” forse, ma sicuramente più ancorate alle lotte e ai conflitti, ossia al nostro mondo. Come si può rompere e invertire la moltiplicazione dei confini che divide e governa la nostra classe-parte? Come si possono costruire forme durature di potere nel dis-ordine dei territori attuali? Come si può agire una nuova leva di conflitto di classe all’interno della metropoli planetaria frammentata, divisa, contesa, nella quale viviamo? Come costruire nuove solidarietà, connessioni ed effetti contagio per i movimenti transnazionali a venire?
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