Non sarà mai un pranzo di gala
Un tempo si diceva che la rivoluzione non è un pranzo di gala; e dove le rivoluzioni sono in corso, è ancora così. In Kurdistan, dove un’intera popolazione pretende indipendenza e libertà, combattendo a un tempo contro il Califfato e contro il governo Turco, sotto l’occhio ambiguo degli Stati Uniti, sono centinaia i caduti, migliaia gli arrestati e i feriti. È l’evoluzione di un processo di lotta e trasformazione che affonda le sue radici nelle rivoluzioni nordafricane iniziate nel 2010, dove a loro volta tante persone hanno perso la libertà o la vita, inserite in un gruppo politico o semplicemente scese in strada quando il governo o l’esercito di turno intendevano impedirlo.
Ribellarsi allo stato di cose presente non è facile, perché in esso si irradiano molteplici dispositivi, caratterizzati da diverse tipologie di uso della violenza. Corpi militari e milizie paramilitari, giudici e forze di polizia ne sono (alcuni) esempi. Esiste un ampio spazio di insubordinazione sociale e politica alle regole date che produce il ricorso, da parte delle istituzioni esistenti, anche a queste forze. I rivoluzionari di ogni paese sono controllati e quotidianamente avversati dagli apparati istituzionali. Il fatto che nell’Europa odierna il ricorso all’uccisione e alla carcerazione degli oppositori sia, con l’esclusione di alcune aree, ridotto, non è che l’effetto dell’assenza di conflitti politici in grado di destare preoccupazione per la tenuta complessiva del sistema istituzionale.
L’azione militante, ovunque abbia luogo, ha come scopo aumentare il peso sociale dei conflitti e approfondire la possibilità di una trasformazione. Là dove la nostra opera ottiene risultati, anche parziali, è normale assistere a forme di reazione della nostra controparte. Ha colpito alcuni, in questi giorni, il numero di arresti (quattordici tra compagn* torinesi e bolognesi) effettuati dalla polizia in un’unica città (Torino) nel giro di poche ore. Le divise hanno agito ora su ordine della magistratura, sulla base di indagini per manifestazioni passate (#MaiConSalvini), ora in situazioni di lotta contingenti (un’azione contro il cantiere Tav di Chiomonte). In verità, per quanto il numero e la tempistica degli arresti appaia eccezionale in rapporto a ciò cui siamo più o meno abituati, anche una simile situazione non è che la semplice conseguenza dell’esistenza di pratiche conflittuali sui nostri territori.
Non rassegniamoci alla tremenda pace sociale che i nostri governanti vorrebbero imporre all’Europa. Migliaia di persone premono sui confini europei in fuga dalle conseguenze economiche e militari delle operazioni predatorie dei capitali e degli stati, all’interno di un mondo organizzato come fabbrica sociale gerarchica, dove l’essere umano è una merce e può muoversi (o continuare a respirare) se appare utile per produrre altre merci. Questo non significa che il rapporto tra le lotte europee, italiane o mondiali debba essere concepito attraverso le lenti di un malinteso terzomondismo di ritorno, magari venato di pietistico eurocentrismo. Significa approfondire le lotte ovunque sapendo che, se a chi condivide la nostra stessa voglia di liberazione arrivano i lacrimogeni, la tortura, la morte per fame o la decapitazione, non dobbiamo accettare minacce e divieti per paura di conseguenze al momento molto meno aspre.
Nessuno è contento di essere arrestato, questo va da sé; né potremmo precipitare nella melma inconcludente del piagnisteo o della sospetta sopravvalutazione retorica della “repressione”. Sappiamo che subire una limitazione della libertà di movimento è una possibilità per chi intende essere una spina del fianco, e chi subisce questa sorte dovrà inventarsi, ogni volta, un modo per fare di necessità virtù senza cedere alle punture non di rado impalpabili con cui tenta di indebolirci il nostro avversario. Del resto non è pensabile rinunciare alla lotta per evitare la repressione; qualunque lotta, comunque affinata, ripensata e reinventata, comporta la sua bella razione di rischio se intende effettivamente incidere sul presente.
La libertà è il bene più grande che abbiamo, tanto più se abbiamo diciassette, venti, venticinque anni. Eppure ciò che contraddistingue la scelta militante comprende la consapevolezza che non c’è libertà in un mondo così – se non nella lotta. Ci dobbiamo provare, costi quel che costi. Dobbiamo rompere questa cappa d’inazione che ci hanno costruito addosso. Iniziare ogni volta da capo, dentro le innovazioni e le trasformazioni che abbiamo attorno, e cercare i sentieri attraverso cui l’insubordinazione sociale può crearsi ed estendersi, il rifiuto della passività e della rassegnazione nascere e crescere, non è facile. Queste difficoltà portano talvolta i nostri critici, altre volte i nostri conoscenti, o le nostre stesse famiglie, a chiederci: ne vale (davvero) la pena? “Vi state rovinando la vita…”
Lo sguardo verso l’esistente che abbiamo scelto non prevede romanticismi: non è quindi in modo affettato che ci sembra importante sottolineare come quando ritroviamo al nostro fianco le persone che hanno patito la privazione della libertà o le cure ospedaliere le vediamo, immancabilmente, sorridere senza rimpianti. È una sorta di caratteristica di un certo di tipo di militanti; in fondo, di persone che hanno in comune una rabbia e un temperamento che non sono, all’oggi, particolarmente comuni, per il solo fatto che in pochi conoscono le soddisfazioni che è in grado di dispensare questo tipo di scelta. Ma non siamo in un film. È la realtà di chi vuole cambiare, e non diventa per questo un perseguitato o chissà chi. Esperienze che fanno parte della “cattiva” strada imposta dalla consapevolezza che, accettando in forma più o meno imbellettata di chinare la testa, non potremmo mai vivere meglio di così.
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