Obbligazioni e subordinati
Tra un presepe mancante ed una cospirazione contro Valentino Rossi pare che nessuno abbia avvertito gli italiani che (anche grazie alla famigerata legge sulle banche popolari varata il marzo scorso da questo governo), negli ultimi anni le banche si sono in larga parte trasformati in società per azioni: di rimando trasformando risparmiatori e depositari in azionisti ed obbligazionisti.
Uno “scongelamento” di capitali e centri di potere soprattutto territoriale (banche locali), ma anche dei loro fiduciari (cioé i risparmiatori delle classi più deboli; anche se in Italia si investe meno nei titoli borsistici che in altri paesi occidentali, anomalia che per qualche burocrate della BCE deve terminare). Che la forza maggiore delle istituzioni nazionali e sovranazionali consegna ora alla mercé della società del rischio globale.
Ora tra tutte le mistificazioni dell’ideologia neoliberale quella più falsa ed odiosa è la mitologia della “democrazia del mercato”, di incontro paritario e selezione razionale di progetti, tendenze e prodotti veicolata dal “libero accesso all’informazione” da parte di tutti gli investitori-partecipanti.
Non è così, né mai potrà esserlo: da una parte perché l’altra faccia dell’economia dell’informazione, bene comune e infinitamente replicabile, è quella dell’economia dell’attenzione, bene scarso e deperibile – soprattutto per chi per condizioni lavorative, età e formazione non parte dagli stessi presupposti del neolaureato della Bocconi. Dall’altra perché le informazioni, prima di essere diffuse, interpretate e valorizzate sui mercati sono già state mediate, lavorate e significate da centri di potere (agenzie di rating, banche centrali e grandi fondi d’investimento) tutt’altro che nominati ed operanti secondo criteri democratici.
E ancora prima dagli interessi di quella classe trasversale di dirigenti già conscia, all’interno delle proprie relazioni informali (e offline) della futura decisione di questa o quell’autorità finanziaria e dell’andamento di questo o quel parametro aziendale (insider trading): la parità dell’accesso alle informazioni non è quindi che una condizione puramente teorica.
Sicuramente lo è per gli obbligazionisti subordinati di Banca delle Marche, Carife, Banca Etruria e CariChieti, al livello più infimo della catena del rimborso fallimentare (sono pur sempre “creditori”, magari meno tutelati di quelli della Grecia ma sempre vittime di un meccanismo-capestro); che oltre ad aver visto evaporare i propri averi sono anche stati mazziati dai media più liberali come avidi e sconsiderati. A volte con conseguenze tragiche. In particolare attorno al corpo ancora caldo del signor Luigino d’Angelo, pensionato di Civitavecchia suicida dopo aver perso i risparmi di una vita in questa macchina infernale, è iniziato uno sciacallaggio trasversale.
C’è il governo Renzi (in verità costretto, una volta tanto, alla difensiva per la particolarità degli interessi toccati) che parla di “necessario consolidamento del sistema creditizio”. Ovvero ulteriori processi di accentramento bancario (che sempre fanno leva su questi momenti di crisi); magari meno precipitosi del consiglio dei ministri straordinariamente riunito domenica 22 novembre e chiamato a votare sul salvataggio della poltrona di papà Boschi a Banca Etruria. Mentre provocando i pruriti della Commissione Europea il ministro Padoan parla di intervento “umanitario” (forse memore delle proporzioni del tracollo economico da lui stesso prodotto in Argentina e Grecia…).
C’è un’ Unione Europea in bancarotta prima materiale che morale (non è un caso che i due momenti siano stati consequenziali), in cui il salvataggio delle banche (tedesche e spagnole in primis) ricolme di titoli tossici è stato proporzionale al drenaggio di risorse dai risparmiatori con la complicità degli stati nazionali.
C’è una Lega Nord che si straccia le vesti e grida alla vergogna strozzina mentre fino all’altro ieri sognava – specularmente ad altri personaggi “di sinistra” – una “banca padana”, intrattenendosi con personaggi del calibro di Fiorani e Ponzellini.
Il risultato, questo sì, è facilmente prevedibile: un sistematico prelievo di ricchezza dalle classi inferiori (un vero e proprio proletariato informazionale di sfrattati del conto corrente ed insolventi in divenire) con lo strumento del bail-in (leggi: i correntisti pagano il salvataggio della banca per errori del management) che arriva ad affiancare quelli dei tagli dell’austerità, della tassazione iniqua, dell’esproprio di territori e risorse per grandi opere ed eventi. Verso il vertice di un sistema più che incapace sfacciatamente forte della sua impunità, della sua astrusità e della memoria a breve termine collettiva – purtroppo deperibile anch’essa.
Tutto questo ci porta ad una (non) conclusione: c’è vita oltre (e nonostante) la finanza? Può nascere qualcosa dai diamanti di ciò solo che fa fremere di rabbia e scendere in piazza una parte di composizione sociale nell’Italia del 2015 – ossia la salvaguardia del proprio patrimonio personale?
Forse iniziare a guardare con un occhio un po’ più critico certe forme di accentramento e delega di responsabilità e risorse spacciate per il nuovo che avanza, anche tramite un positivismo tecnologico ormai fuori stagione (senza difendere l’evasione dei super-ricchi: qualcuno si sente in questa situazione di rinunciare alla disponibilità del denaro contante in favore di quello elettronico?). Ad inchiestare i traditi dalla macchina finanziaria in questi momenti di tragica emersione da una società anomica. Ed iniziare ad immaginarsi fiduce e mutualità altre, verso forme di valorizzazione e condivisione dell’informazione e (quindi) della ricchezza che non passino attraverso il mercato borsistico; facendosi forti di saperi autonomi e forme di autogestione complesse.
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