Otto dicembre: sull’attualità irriducibile del movimento No Tav
“The Times They Are a-Changin'” cantava nel 1964 Bob Dylan cogliendo il conflitto generazionale, politico e sociale che da lì a poco sarebbe esploso compiutamente negli Stati Uniti del dopoguerra.
Anche oggi i tempi stanno cambiando, e a differenza degli anni ’60 è difficile intravedere gli spiragli di un futuro migliore. Tra crisi climatica, pandemia, guerre la sensazione rischia di diventare quella che un futuro non ci sarà affatto o che sarà denso di sofferenza e distopie. Eppure quella distanza generazionale che Bob Dylan interpretava così efficacemente nella sua canzone oggi si ripresenta non come sensazione, ma come dato sociale diffuso in tutto l’Occidente capitalista sempre più incapace di offrire prospettive ai propri giovani.
Cosa centra questa breve divagazione con il movimento No Tav? E’ presto detto, questo fenomeno locale, ma non localizzato, specifico, ma con caratteri generali rappresenta da decenni un seme di contraddizioni inevase, di percorsi alternativi, di esperienze concrete. Un’anticipazione, che come il vento di föhn si diffonde da una piccola valle alpina.
Oggi è evidente a tutti che l’era delle vacche grasse è finita, o per dirla con più eleganza questo sistema di sviluppo non è più in grado di garantire, neanche tra le popolazioni dei suoi paesi cardine, non solo il benessere, ma una vita dignotosa. Da oltralpe l’inquilino dell’Eliseo l’ha detto senza troppi giri di parole: “Non possiamo più vivere al ritmo, e direi con la stessa grammatica, di com’era fino ad un anno fa. È cambiato tutto.”
Ecco dunque che il paradigma della crescita infinita ed ad ogni costo oggi inizia a vedere delle increspature persino tra i suoi più fedeli sostenitori. Semplicemente, alle date condizioni, non è più possibile replicarlo. E’ ciò che i movimenti territoriali come il No Tav sostengono da decenni, riflessione che diventa più urgente e concreta da quando gli effetti reali della crisi climatica hanno iniziato a manifestarsi in lungo e largo. La crescita infinita è semplicemente incompatibile con la finitezza delle risorse.
Ma il fatto che questa consapevolezza finalmente sfiori le classi dirigenti europee non dovrebbe darci sollievo perché se decrescita dovrà essere il tema obbligato che si pone è dove e per chi. Quando Macron fa queste affermazioni ciò che ha in mente è un’economia di guerra.
Già lo vediamo nell’agenda politica del nuovo governo italiano, dove non sussiste nessuna intenzione neanche minima di affrontare la questione climatica, ma non solo: la decrescita è imposta ai più poveri, a chi già oggi soffre, con l’intenzione chiara di abbassare i salari per destinare le risorse che ci sono all’imprenditoria parassitaria italiana e alle grandi opere inutili, tra cui il Tav per cui, al momento a parole (nel senso che i fondi sono ancora da destinare), sono stati inseriti nella legge di bilancio 750 milioni di euro fino al 2029. Questo accade mentre il nostro territorio è flagellato ripetutamente da eventi climatici estremi e mostra tutta la sua fragilità dal punto di vista idrogeologico, ma anche da quello della “sicurezza alimentare” ed energetica. Territori in cui, come nel caso di Ischia la combinazione tra messa a profitto e crisi climatica rischia di portare a migrazioni di massa, ulteriore abbandono e disperazione di chi non può fuggire.
Questi non sono solo gli effetti collaterali, ma sono parte integrante della strategia della messa a profitto dei territori. Lo spiega bene il recente articolo di notav.info in merito alle compensazioni del Tav: “Una delle basi di partenza del processo è soffocare economicamente il territorio coinvolto dalle operazioni cercando di renderlo dipendente ed attratto dalle operazioni progettate dai colonizzatori. […] L’imposizione si fa ancora più grave perchè passa attraverso anni di disinvestimento nei piccoli comuni e territori montani, dove i servizi, la sanità, l’istruzione, l’occupazione non sono garantiti e le istituzioni su scala regionale e nazionale costruiscono implicitamente le condizioni di abbandono di un territorio e di migrazione dei suoi abitanti.”
Il colonialismo interno dunque come redistribuzione delle risorse verso l’alto, come decrescita imposta alle comunità locali per perpetrare una vera e propria rapina. Questo fenomeno può essere a bassa intensità, fermarsi alla corruzione delle spoglie, ma quando incontra un movimento popolare radicato e radicale come il No Tav assume anche in ambito giuridico e di ordine pubblico l’aspetto di un tribunale coloniale con il suo portato di diritto penale del nemico e filo spinato, in cui gli oppositori vengono disegnati come barbari, montanari e violenti.
L’accanimento contro il movimento è la conseguenza più diretta della sua attualità. Il No Tav è una lacerazione nella falsa coscienza di un sistema che si dipinge di verde mentre è sempre più condiscendente e dipendente dalla logica criminale del fossile e del cemento.
Oggi la compagine che sostiene la costruzione del Tav Torino-Lione si misura con enormi difficoltà oggettive, determinate dalla stessa assurdità del progetto e dalla strenua resistenza del movimento, ma ciò che li spaventa di più è che il moltiplicarsi delle contraddizioni sistemiche collegate alla messa a profitto dei territori possa minare la stessa idea di modello di sviluppo che si propongono. Che quella distanza tra generazioni si possa ricomporre in un incontro tra chi non vuole soccombere alla catastrofe e chi sogna un altro futuro possibile, come è successo ormai da anni in Val Susa, in una maniera dialettica e mai scontata, sempre da conquistare. E’ in questo incontro che ci si pongono davanti i compiti per il domani, dove è fondamentale resistere, ma è anche sempre più necessario figurarsi come affrontare collettivamente e dal basso il declino dei tempi che corrono.
Avanti No Tav!
Qui l’interessante contributo dei giovani No Tav verso la marcia dell’8 dicembre.
Foto di Diego Fulcheri
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