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Contro la banalità della morte migrante:riportare il discorso politico nella materialità dell’esistenza quotidiana

Lo scorso 3 maggio a Roma, durante un blitz della Polizia municipale, a Trastevere è morto, in circostanze estremamente poco chiare, Nian Maguette un lavorante senegalese di 54 anni.

Gli amici e i colleghi dell’uomo, che erano presenti su Lungotevere de Cenci, hanno subito reagito a quella che è stata da loro vissuta come una brutale aggressione spacciata da “blitz antidegrado”, improvvisando un blocco stradale, immediatamente rimosso con la forza dai reparti celere della polizia, in assetto antisommossa.

Dall’autopsia sul corpo dell’uomo predisposta per il 6 maggio, “non emergerebbero fratture ed elementi compatibili con un decesso causato da investimento o da un evento violento”. Questo almeno e’ quanto emerge dalla prima fase dell’autopsia. Sembra essere confermata, quindi, l’ipotesi di una “morte naturale”, come riportato da un articolo del Tgcom 24. Fin da subito, infatti, si sono date versioni discordanti del fatto in questione. Da una parte gli amici e i colleghi del ragazzo, coinvolti anch’essi nel blitz, affermano di essere stati inseguiti e colpiti più volte da squadre di vigili urbani, le quali, quindi, pare abbiano messo in campo un uso arbitrario della forza. Dinamica che è stata confermata anche da una testimonianza apparsa sul Manifesto nella quale la moglie di Valentino Parlato accusa il capo dei vigili urbani, Di Maggio di dire il falso e di aver effettuato un vera e propria caccia al migrante. Dal Comando della polizia municipale, invece, è giunta una smentita rispetto a questa versione unitamente alla minaccia di querele verso chiunque dica il contrario compresa Maria Delfina Bonada.

Scendere nel merito delle dichiarazioni, però, serve solamente ad avere un quadro ampio della situazione; risulta chiaro che parlare di morte per “cause naturali” in circostanze di inseguimento, minacce di arresto e repressione è quantomeno tendenzioso, se non addirittura falso.

Quello che è interessante, però, è allargare l’angolatura del discorso per capire il quadro, nazionale e cittadino, nel quale si inserisce la morte di Nian Maguette. Il 2 maggio, proprio il giorno precedente la morte dell’uomo, in risposta a un’interrogazione del consigliere di FdI Andrea De Priamo, la sindaca di Roma, Virginia Raggi, aveva dichiarato che la bozza del nuovo regolamento di polizia urbana era stato sospeso per essere adeguato alle novità in materia introdotte dal Decreto Minniti. Aveva aggiunto, inoltre, che: “ È necessaria una riorganizzazione importante che consenta le attività necessarie, dal pattugliamento sulle strade a una serie di controlli amministrativi che riguardano, necessariamente, anche il fenomeno dei mercatini abusivi e del “rovistaggio”.”.

A distanza di un giorno dalle dichiarazioni della sindaca, le nuove norme in fatto di “sicurezza” fanno la prima, innocente, vittima. Peso importantissimo in tutti questi fatti di cronaca ha sicuramente il decreto Minniti-Orlando approvato lo scorso 12 aprile alla Camera e salutato con favore da destra a “sinistra”. Tuttavia, il decreto Minniti ha solamente rafforzato e strutturato una serie di pratiche che erano già ampiamente in uso nella gestione dell’ordine pubblico: dal daspo fino ai decreti di espulsione; gli stessi blitz anti degrado degli agenti in borghese della polizia municipale nella Capitale vanno in scena da ben prima rispetto all’approvazione del Pacchetto Sicurezza.

Quello che ha sancito, però, in forma di legge, questo decreto, nonché nocciolo di quest’analisi, è il fatto che questioni di ambito prettamente politico-sociale vengano gestite come mere questioni di ordine pubblico. Il giorno 2 maggio, ad esempio, è andata in scena, a Milano, una maxi operazione di identificazione e deportazione, anch’essa mascherata da “blitz-antidegrado”, nei confronti di tutti quei migranti che stazionavano o passavano in quel momento per la stazione centrale. In quell’occasione, era subdolamente presente sulla scena, armato di smartphone, il segretario nazionale della Lega Nord Matteo Salvini, il quale, plaudendo l’operato delle forze dell’ordine e schernendo le centinaia di persone disperate che subivano l’identificazione e la deportazione, contribuiva a rendere mediaticamente “ appetibile” l’evento in questione agli occhi di buona parte del suo elettorato.

La tendenza delle componenti istituzionali e dei partiti, infatti, oltre a dare pieni poteri alle questure e prefetture nella gestione “militare” delle questioni sociali, è quella di utilizzare i fatti di cronaca come pretesto per allargare la loro base consensuale. La “politica”, o presunta tale, si sposta quindi sul piano mediale della comunicazione, con il preciso intento di direzionare l’opinione pubblica per scopi elettorali. Esempio emblematico di questa tendenza è la recente narrazione tossica fatta su giornali e social network da Lega e Movimento 5 Stelle sulla connivenza tra le Ong e gli scafisti; narrazione nata dalla presunta inchiesta portata avanti dal pm di Catania Zuccaro, e che, gonfiata e condita con deliri complottisti, ha il chiaro intento di dis-umanizzare sia quei soggetti che compiono infiniti viaggi per fuggire da fame e guerre, sia quelle realtà che prestano loro soccorso nel mar Mediterraneo.

A Roma, la comunità senegalese stretta intorno alla morte del proprio compagno insieme a tanti e tante di altre nazionalità si sono ritrovati a piazza Santi Apostoli per gridare giustizia per Maguette e pretendere la fine dei rastrellamenti. La piazza ha denunciato la gravità della violenza della polizia tanto quanto della politica nel trattare la morte di un migrante, in mare per raggiungere l’Italia o per strada per un paio di borsette, come una “banalità”. I migranti muoiono ogni giorno e la loro vita vale poco, uno in più uno in meno non fa la differenza, quello che interessa della vita o della morte dei migranti non è il fatto in sé ma la possibilità di spostare l’elettorato.

Infatti, a fronte di una crescente politicizzazione e presenza istituzionale nello spazio comunicativo e formale, vi è un totale abbandono da parte degli stessi soggetti dello spazio concreto della vita quotidiana degli individui. I luoghi di vita, soprattutto quei quartieri nei quali vivono fianco a fianco quotidianamente comunità multietniche, sono lasciati completamente svuotati da qualunque forma politica intermedia. Lì dove questa quotidianità porta alla luce frizioni e momenti di scontro sicuramente problematici, le realtà politiche che si muovono sul territorio hanno il compito arduo ma vitale di inserirsi, per fare in modo che le narrazioni tossiche non facciano presa su chi vive una condizione di precarietà esistenziale. Rifuggire da uno scontro che si vuole solamente formale perciò, dà la possibilità, parimenti, di riportare il discorso politico nella materialità dell’esistenza quotidiana. Proprio là dove si creano delle normali contraddizioni tra flussi e luoghi va riportato lo scontro, con tutta la difficoltà di inserirsi in situazioni che restituiscono immediatamente una problematicità, ma anche una politicità nella richiesta di diritti e dignità: resta sempre, cioè, prioritario contrapporre al discorso razziale quello più vero e dignitoso della contrapposizione tra classi, tra mondo di sotto e mondo di sopra, che la ormai infinita campagna elettorale dei partiti ha interesse a soffocare.

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