Proposte per un autunno di lotta
L’autunno di lotta è iniziato ieri a Napoli, con un aperitivo senza brio. Di fronte al limitato risalto politico che, per come sono andate le cose (contrariamente a un’aspettativa abbastanza diffusa) ha avuto l’assedio al vertice BCE, crediamo siano utili alcune riflessioni e un paio di proposte (visto che, ancora, l’autunno lo abbiamo davanti).
La prima urgenza è mettere a fuoco la situazione sociale ed economica che abbiamo di fronte e le sue implicazioni per i nostri compiti in tutte le città italiane. Il precipitare delle condizioni materiali di vita di settori vastissimi della popolazione ci chiama a dare a questi bisogni rappresentazione sociale attiva. L’insofferenza che cresce verso il nemico invisibile dell’austerity e delle cifre, che per tutti si cela dietro le figure più o meno “bonarie” o “antipatiche” che presiedono i diversi governi, o gli scranni della Commissione Europea e della BCE, non può e non deve restare senza interpretazione e direzione politica. Noi dobbiamo dare questa direzione, nostra deve essere questa interpretazione. Di chi, altrimenti? Della Lega? Di Casapound? Del governo stesso?
Guardiamoci attorno. La sofferenza sociale non trova rappresentazione (concetto diverso da rappresentanza) in nessuna forma politica. Talvolta sembra che attendiamo una spontanea esplosione movimentista, che arrivi dalle scuole, dalle periferie, o chissà da cos’altro, e che non riteniamo utile rischiare e scommettere nelle occasioni che ci si presentano, temendo di non essere compresi, o appoggiati, da coloro che in prospettiva vorremmo coinvolgere. È un’impostazione sbagliata. La crescita politica, nel consenso e nel conflitto, non è una tavola arredata che viene approntata gratuitamente dalle condizioni sociali. Senza mettersi in gioco, senza lanciare messaggi sotto forma di esemplificazioni pratiche e dirette di una possibile reazione attiva (e non passiva, o magari reazionaria) agli attacchi del dispositivo di crisi, non diventeremo mai punto di riferimento per i segmenti sociali con i quali ci vogliamo organizzare.
Perché questo è il nostro obiettivo. O no? Non sempre appare chiaro. A volte sembra che ci avviciniamo a una scadenza perché dobbiamo farlo, perché la sfilata si deve comunque portare a termine, magari con un po’ di fumo e qualche petardo. Meglio di niente, per carità, ma non è soltanto così che sapremo imprimere un segno nella stagione che ci attende. Un ottobre che sembrava incentrato soltanto sul blocco sociale del 16 si vede ora popolato anche da eventi politicamente importanti come il vertice europeo sul lavoro a Milano (8 ottobre) e quello sulla disoccupazione, i giovani e i loro “diritti” a Torino (17-18 ottobre). Queste scadenze non sono né tegole che ci cadono sulla testa, né occasioni in cui scendere in piazza per dovere morale, quasi che la sovversione fosse un lavoro noioso, che ci viene calato dall’alto. Sono occasioni, al contrario, per far esprimere le energie che cerchiamo di accumulare con l’attivazione politica di medio periodo.
Queste (e tutte le altre) scadenze che ci diamo, nelle diverse città, sono opportunità per saggiare la disponibilità della tensione sociale a crescere, a farsi politica. Alla possibilità del conflitto sociale dobbiamo credere, non agitarne sterilmente il concetto. Crederci vuol dire, certo, operare tutti i giorni nei territori per sedimentare una visione diversa, pratiche diverse: su questo non c’è dubbio. Vuol dire anche, però, saper calare la zampata ogni volta che è possibile, per far precipitare e maturare quella sedimentazione. Senza uno di questi due corni, l’aggregazione di segno antagonista è contraddizione in termini: rischiamo di essere controcultura o trasgressione, magari in buona fede, pensando di essere altro.
La politica non è un percorso lineare di accumulazione di forza, come pensano quelli per cui non è mai il momento, per cui i tempi non sono mai maturi. La politica, anzitutto se orientata alla trasformazione, procede per salti e traumi, ed anche così si condensa la concretezza dell’alternativa. Resiste a ben vedere un ceto politico di “movimento”, ancora vivo e vegeto dappertutto, che concepisce l’azione come pura e semplice gestione della contraddizione. Figure che si riciclano da una fase all’altra pur di restare a galla o in evidenza, senza che talvolta si capisca quale sia il loro reale contributo, e la loro reale disponibilità al conflitto che andiamo cercando.
Così accade che alla polizia si chieda di poter passare “per cortesia”… Episodi marginali, naturalmente (benché rivelatori), e non agitiamo questioni di principio, sia chiaro: sono sempre poco interessanti. Vero è che il confronto in campo tra i diversi strati sociali non è oggi un problema di buona educazione, e la polizia è interna a questo scenario; come tale, ad esempio, va concepita, e non come una controparte che è possibile “far ragionare”, pena la perdita del senso stesso e del fondamento dei rapporti sociali. Concepire ciò che costruiamo sui territori, d’altra parte, o le collettività di compagni, come “beni” da tutelare rispetto alla possibilità dello scontro, piuttosto che il male politico – il negativo! – su cui far crescere e rafforzare un progetto di scardinamento dell’ordine esistente (a costo delle condanne, delle ferite e degli arresti) è miope. Meglio feriti e arrestati accompagnando un percorso reale, disposto a rischiare per rafforzarsi, che liberi e incolumi con il paese reale in mano ai politicanti o alla destra.
Non viviamo le mobilitazioni che ci attendono come una via di Damasco colma di un’attesa nei fatti superstiziosa, né come mera occasione per enumerare una serie di appuntamenti freddi, che da “tavoli” diversi sono stati concepiti e su tali “tavoli” dovrebbero poi ritornare, per un commento di rito. Concepiamole come momenti in cui operare tentativi reali di costruzione del conflitto. Non divarichiamo la progettualità di “movimento” dalla fase di tensione e dibattito che attraversa il paese, quasi noi fossimo una storia a parte, una cosa specifica. Non è questa “l’alternativa”. Nell’antagonismo non ci sono compiti a casa, per nessuno e da parte di nessuno: usiamo creatività.
La situazione non è facile, nessuno lo nega. Allora? Abbiamo già visto che, quando le esplosioni sono spontanee (in termini elettorali o di piazza) la reazione di molti è storcere il naso. Va bene; allora scendiamo in strada adesso e lanciamo dei segnali, dicendo: c’è chi subisce la crisi e su questo terreno, su questi contenuti, è disposto ad agire il conflitto, venite con noi. Non spaventiamoci se non verranno tutti e subito. Il nostro ruolo è costituire nei fatti una possibilità materiale, fatta cioè di attivazioni concrete, non di ritualità o discorsi più o meno giusti. La possiamo costituire nel tempo con l’aggregazione, il radicamento, l’immaginario, ma infine, sicuramente, con la mobilitazione. Scendiamo in strada, sperimentiamo, tentiamo tutte le forme; ma rendiamoci conto che, all’altezza di questi tempi, non c’è spazio per le mezze intenzioni.
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