Renzi, lo spazio sacro, il nemico
Dalla platea di Expò Renzi, sempre più imbrigliato da inceppi di varia natura che ne rallentano quella che sino a pochi mesi fa pareva essere una corsa inarrestabile, mette sul tavolo la mossa del suo rilancio. Laddove il primo maggio la tanto accuratamente preparata vetrina milanese non era stata a disposizione del premier, sabato un PD molto più debole si è trovato di fronte alla sterzata del fiorentino, che può essere letta su molteplici livelli.
I giornali parlano della “rivoluzione delle tasse“, che dovrebbe trascinare Renzi a rivincere nel 2018, come di una mossa rispetto alle minoranze interne, relativa all’agganciamento della truppa dei verdiniani, per contendere a Grillo alcuni pezzetti di classe media, per prendere voti nel bacino elettorale del centrodestra e rilanciare così il progetto di partito della nazione ecc.. Tutto probabilmente vero, ma crediamo che ci siano almeno un paio di ragioni più profonde da considerare in questa ultima “svolta” renziana, che non attengono al marketing politico o alle tattiche partitico-istituzionali.
La prima riteniamo attenga al post caso greco, che ha messo in luce due elementi che possiamo riassumere molto seccamente: l’impossibilità sia soggettiva che oggettiva di un’opzione socialdemocratica su scala sia nazionale che continentale e, intimamente legato a ciò, la necessità per Renzi di muoversi in Italia all’interno degli stretti binari disposti dalla Troika e dall’Europa tedesca. Qualsiasi ipotesi di costruzione di, seppur labili, spazi di manovra sono evaporati. E Renzi allora presenta l’opzione-Italia all’insegna di un sistema capace di stabilità e affidabilità.
La seconda ragione è tuttavia più interessante per ciò che attiene ai nostri interessi immediati e alle nostre possibilità di incidere nel reale. Avanziamo infatti l’ipotesi che il discorso sulle tasse, a partire dall’eliminazione di quella sulla prima casa, sottenda una riflessione sul corpo politico di riferimento. Il costante calo della partecipazione elettorale è un dato col quale Renzi, al di là delle boutade mediatiche, deve aver fatto attentamente i conti. E probabilmente il discorso a Expò è la conseguenza politica che Renzi ha tratto: il dato elettorale rimarrà tale, ed è un bene che sia così.
Spieghiamoci meglio. Su qualunque manuale di scienza politica viene spiegato (avendo in mente il modello statunitense) come un sistema democratico “maturo” veda inevitabilmente un’affluenza elettorale ridotta. E i liberali si affannano a spiegare e legittimare come ciò non sia un problema di democrazia e libertà, perché in fondo tali sfere si giocano nel piano del privato. Ossia: una democrazia matura è quella che garantisce la libertà di impresa, di mercato, di ascesa sociale tramite il merito, del rispetto dei “diritti”, vere sfere nelle quali è possibile misurare la libertà.
Anzi, è il non detto di tali riflessioni, l’esercizio della decisione politica è in fondo da sempre problematico se lasciato in mano a “tutti”. Il popolo, i poveri, le classi sociali basse che dir si voglia, sono ignoranti, si fanno attrarre dalle sirene populiste, sono in preda a passioni irrazionali che possono produrre gravi problemi politici. In fondo è molto meglio che a garantire la stabilità di un sistema sia chi è in grado di conoscerlo e gestirlo ordinatamente. Questo è il discorso liberale classico, che ancora oggi mostra, seppur trasfigurate dal ricorso alla tecnica e da altre retoriche, le sue lunghe propaggini.
Renzi allora, dicevamo, all’interno di questo discorso pare dire: il voto (come dimostra la Grecia) è sempre più uno strumento destinato a perdere rilevanza e interesse per molti ceti sociali poveri o impoveriti, che molto materialisticamente non vedono in questa forma di partecipazione nessun loro interesse in gioco. La contesa allora, per Renzi, viene a darsi rispetto a quei settori sociali (bianchi e proprietari, si sarebbe detto una volta), che ancora nel voto vedono degli spazi di manovra e la possibilità che i loro interessi abbiano dei vantaggi.
Questa perimetrazione di uno spazio sacro della democrazia, delle classi dei solventi contrapposte a quelle insolventi, diviene allora lo spazio di riferimento per il Partito democratico. E non a caso di fronte alle timide critiche interne che provano a far notare come (dati alla mano), l’annullare la tassa sulla prima casa – a parte che non tocca minimamente chi una casa non la possiede, ovviamente – avrebbe un effetto davvero minimo sui “ceti bassi”. Si parla di una dozzina di euro al mese di risparmio. Mentre i veri beneficiari sarebbero i ricchi. Emblematica la risposta di Guerini: “a noi interessa l’Italia”. Che sempre più, entro uno strano effetto deja vù, pare assumere i connotati dell‘idea ottocentesca di nazione per ciò che in questo paese ha significato.
A partire da queste abbozzate riflessioni c’è però un ulteriore aspetto da considerare, situato sull’altro versante del teatro politico. Se è vero che “la sinistra” istituzionale punta sempre più al ceto medio/medio-alto come suo settore di riferimento, ci troviamo di fronte a una destra che, nel lento disfacimento del berlusconismo, individua nei settori popolari ambiti di riferimento per il proprio discorso politico. Un progetto, quello a trazione salviniana, che all’attuale probabilmente non ha le carte per proporsi come ipotesi di governo, che tuttavia nel proprio seminare sempre più odio dal pulpito televisivo arriva a insinuarsi nelle pieghe dei quartieri popolari e di quelli che sono anche i nostri ambiti di riferimento.
Siamo di fronte a quello che a prima vista appare come un paradosso, o una tragica e beffarda ironia della storia. Ma c’è un altro elemento da sottolineare. Se infatti fino agli anni Settanta la dialettica/scontro tra partito comunista e movimenti e organizzazioni antagoniste si determinava su un terreno sociale comune, a qualche decennio di distanza la situazione è radicalmente mutata. E anche dentro “il movimento” le retoriche che paiono riproporre uno scontro col PD come se si rivivesse uno scontro anni Settanta con il Pci, farebbero bene a misurarsi su tali trasformazioni.
Da quando Asor Rosa scrisse contro il movimento del ’77 il famoso articolo sulle “due società” (garantiti vs non garantiti, lavoratori vs disoccupati), l’evoluzione del ceto politico pcista ha percorso con chiarezza la strada della rappresentazione dei garantiti, arrivando oggi per l’appunto a riferirsi ai settori sociali di cui discutevamo sopra. Il problema allora, pur nell’ovvia necessità di attrezzarsi contro il partito di governo – magari a partire dal provare a fare male a Renzi nell’opposizione alla riforma scolastica, senza rimanere impiastricciati nella rincorsa che su tale settore giocherà la neo-costituentesi accozzaglia di sinistri parlamentari.. -, diviene quello di una presenza nei territori che si trova a scontrarsi con le retoriche del “prima agli italiani”. Sia chiaro, gli eventi recenti di Roma, Treviso e Acerra sono spie di questa situazione, ma all’attuale non paiono prefigurare l’esplosione di un’emergenza neofascista. Ma non possono nemmeno essere sottovalutate. E vanno anzi duramente contrastate.
Queste considerazioni inducono a riflettere su quali forme organizzative e quali processi politici e sociali sia necessario oggi innestare. Se non ci basta ammaliarci di affascinazioni idealistiche o limitare il nostro agire alla semplice presenza/testimonianza, è imprescindibile che dalle effettive presenze di lotta e organizzazione nei territori emergano punti di vista e pratiche organizzative adeguata allo scenario nuovo che sta emergendo. Ciò significa elaborare strategie organizzative sempre situate agli effettivi movimenti delle frastagliate linee di classe. La capacità di porsi su un livello di egemonia in grado di ribaltare la retorica del “prima agli italiani” – con la consapevolezza che non è dalla più o meno lucida elaborazione del singolo collettivo o militante che verrà proposta la parola magica, ma dai reali processi di conflitto. E infine la possibilità di costruire un campo di battaglia che individui “il vero nemico”.
E in quest’ottica, se è vero che ci troviamo di fronte ad una politica istituzionale e dei partiti che sempre meno interesserà i settori sociali più poveri, diviene importante porsi il problema di come far slittare i discorsi sulla casta da un terreno eminentemente partitico ad un piano sistemico più generale, che coinvolga tutti i livelli della rendita urbana, della speculazione finanziaria e delle svariate articolazioni del capitalista collettivo.
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