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Renzi, Mao, la governabilità 5 Stelle e il nostro tempo politico

 

«Noi abbiamo un’altra intuizione, l’intuizione che la storia ritorna, ma non si ripete».

Da un appello del 22 marzo degli studenti francesi

 

In queste ore Renzi si trova in Cina per il G20, e anche qui non manca di rilanciare dichiarazioni tutte centrate sul contesto italiano. Da qualche tempo il premier è impegnato a contrastare e a riposizionare la valenza del prossimo referendum, ossia il rischio della propria fragorosa caduta. L’all in giocato sulla vittoria del Sì si rivela sempre più come un azzardo ingestibile per lui e più in generale per la governabilità del sistema-paese (e non solo). E’ in particolare su un piano del dispositivo temporale che ora Renzi tenta di imbrigliare la possibile disfatta e la sua uscita dal tavolo.

«All’Italia spetterà la presidenza di uno dei prossimi G20, che non abbiamo ancora ospitato. Non so se sarà nel 2019, nel 2020 o nel 2021, comunque io ci sarò». Sono queste le parole con cui si conclude la sua conferenza stampa a Hangzhou. E hanno da un lato un sapore scaramantico, ma dall’altro segnano una profonda transizione nel discorso renziano. Ve la ricordate la campagna per le primarie? Lo slogan era “Adesso!”, e ci si prometteva di rottamare il vecchio. La paura del cambiamento è un’altra delle retoriche agitate dal renzismo, che tuttavia adesso si agita e sta cambiando verso. Ancora Renzi dichiara:

«Spesso per vedere i risultati delle riforme ci vogliono anni. Il futuro viaggia veloce e può impaurire […] Tutti vogliamo una crescita inclusiva ma abbiamo un nemico comune: la paura». Ecco dunque il nuovo imprimatur: prendere tempo, allungare l’orizzonte dell’azione di governo, sconfiggere la paura del futuro. Non si gioca più sull’immediatezza della politica dei tweet, ma si prova a ridefinire un’azione politica che esca dal presente e dalla continua ricerca dell’evento che legittimi l’agire del leader. Non a caso pochi giorni fa al Forum Ambrosetti di Cernobbio sempre Renzi faceva ricorso a una metafora dal sapore maiosta:

«L’Italia prosegue una lunga marcia: il 2016 si chiuderà meglio del 2015, che si è chiuso meglio del 2014, questo è un risultato inoppugnabile», fino ad aggiungere una frase illuminante: «Nella dittatura dell’istante abbiamo bisogno di tempo e noi non abbiamo fretta». Poco dopo fa addirittura ricorso a metafore bibliche per depotenziare il peso politico accumulatosi sul referendum: se «vince il no, non c’è l’invasione delle cavallette, non c’è la fine del mondo: resta tutto così».

Il tentativo di inversione di rotta non potrebbe essere più lampante. Come scrivevamo dopo le ultime amministrative, il ciclo renziano ha attraversato in fretta il solco tra innovazione riformatrice e appartenenza alla “casta”. 

Il problema nel quale si ritrova invischiato Renzi muove tuttavia su acque ben più profonde. La sua traiettoria è, pur compressa in pochi anni, mimetica di un mutamento più intenso nella percezione della temporalità politica. Per gli antichi il tempo era una spirale ciclica di continuo decadimento dei sistemi politici rispetto a un mitico passato di benessere. La stasis, la guerra civile, un pericolo costante alla quale si rispondeva con l’oblio, la rimozione dal ricordo. La modernità si struttura cambiando radicalmente i termini del gioco. La guerra civile deve essere continuamente ricordata come monito perché non si ricada in tale passato. Il tempo è tutto rivolto al futuro, al suo progetto di costruzione. Questo tempo progressivo, di cui si era dotato in senso rivoluzionario anche il movimento operaio, è stato profondamente riorganizzato dalla restaurazione neoliberale a partire dalla metà degli anni ’70. In parallelo con l’affermarsi delle tecnologie cibernetiche, è il presente a divenire l’orizzonte temporale prevalente – ma all’interno di una narrativa che pone la crescita costante come sostegno dell’eterno presente.

Oggi la promessa del continuo progresso si infrange sempre più contro la burrasca del presente, e si inizia a insinuare una nuova percezione temporale che nuovamente ridefinisce i vettori temporali. E’ Massimo Cacciari a darne un lampante esempio, in un’intervista concessa alla festa del Fatto Quotidiano:

«I 5 Stelle […] io mi auguro che crescano, maturino, perché il disfarsi di questa aggregazione importante, almeno quantitativamente importante, aggraverebbe ancora il disfarsi di questo paese […] quindi è augurabile che almeno il 25-30% di questo elettorato si ritrovi all’interno di questa casamatta perché altrimenti il liquido diventa gassoso in questo paese […]. Sta mancando strategia, politica, classe dirigente, debolezza patologica del paese […]. Una crisi che dura dagli anni ’70. […] Il grande rischio è che il futuro ci presenti una catastrofe, cioè un mutamento radicale di scena con tutto quello che ciò comporta».

E sì che fino a poco fa Cacciari era uno dei più duri fustigatori dei 5 Stelle. Ma l’avvicinarsi di scenari foschi e difficilmente prevedibili conducono il filosofo veneto a sperare anche nei 5 Stelle come forma di tenuta sistemica, pur di fronte alle convulsioni della giunta Raggi e alle (apparenti o di sostanza?) divaricazioni interne tra “movimentismo” e “governismo”, per prevenire esplosioni a suo parere catastrofiche.

Ecco, la catastrofe che si profila nel futuro è una spia rilevante di una temporalità frammentata che sta uscendo dalle coordinate moderne, o quantomeno da quelle consolidate. Quali siano le possibilità per opzioni sociali antagoniste di incidere sulla definizione del piano temporale nei tempi a venire saranno unicamente le lotte a poterlo determinare. Ma è all’interno di questo tempo globale interconnesso, fluttuante, rapsodico, che si definiscono i terreni politici del momento che attraversiamo. E che riemerge, all’interno delle contraddizioni del presente, il peso della storia. Passa anche per la riscoperta di progetto e di un gioco temporale fatto di una superficie vischiosa ma costituito di rarefazioni e precipitazioni, frenesie e attese, l’agire politico oggi.

 

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