Rifiutare la guerra, rilanciare il conflitto
Mai come questa volta la campagna elettorale in direzione delle elezioni amministrative, che si terranno nelle principali metropoli del nostro paese ai primi di giugno, è stata tanto svuotata dei contenuti che riguardano i problemi reali dei territori. In questo balletto tutte le forze partitiche sembrano muoversi all’unisono, sviando in tutti i modi possibili il dibattito sui programmi e sulle possibili risoluzioni dei problemi dettati soprattutto dal permanere – se non dell’intensificarsi – della crisi economica. Contemporaneamente, il quadro vede anche i sindacati confederali agire la rinuncia definitiva ad ogni tipo di presa di parola su temi probabilmente ritenuti minoritari come la disoccupazione e l’impatto del JobsAct, lo sfruttamento nel mondo del lavoro a partire dall’esplosione del sistema del voucher, l’utilizzo strumentale dell’“emergenza migranti” nella società ai fini della creazione di meccanismi di guerra tra poveri: la stessa parola sciopero sembra essere scomparsa dal dizionario.
Il mondo della politica si contenta di offrire all’elettorato soluzioni tecniche, ricalcate sulla pratica della gestione emergenziale dei territori tipica dei commissariamenti o del modello gestionale dei periodi dei cosiddetti grandi eventi: la candidatura di un tecnico come Sala a Milano, la querelle su Bertolaso a Roma dopo i tanti mesi di governo tecnico da parte del duo Gabrielli-Tronca, il commissariamento di fatto della politica in una città indebitata come Torino ci offrono un quadro che – a parte poche eccezioni – è espressione dell’ulteriore divaricazione tra le forme della politica istituzionale e la possibilità di questa di incidere sul territorio ai tempi del patto di Stabilità e del pareggio di bilancio in Costituzione. I dati che parlano di un risultato stellare della pratica astensionistica costituiranno un’ulteriore svuotamento di legittimità della politica rappresentativa che però ormai dobbiamo essere in grado di cogliere nella sua insufficienza rispetto a prospettive trasformative.
Questo stato dell’arte vede infatti nella forma politica di governance renziana (e soprattutto nella sua forma spettacolare, di creare spettacolo intorno a sè) un qualcosa tuttora capace di assicurare stabilità sociale, nonchè di mantenere il consenso al governo da parte della parte solvibile della società, il cui pelo è stato lisciato da misure come l’eliminazione di Imu e Tasi e dall’enfasi bipartisan sulla necessità di uno Stato ulteriormente securitario. Per quanto in allarme rispetto all’andamento dei dati economici e all’apertura di dibattiti come quello sulla riforma della sanità e sul futuro delle pensioni di reversibilità, questo ceto minoritario ma capace di essere egemone non sembra dare segni di insofferenza rispetto al ducetto fiorentino e al suo cerchio magico.
Di fatto, in classico stile americano, a Renzi e al suo PD ormai liquido non interessano piu’ i dati sul voto, contentandosi di governare anche con il piu’ misero numero di elettori. Non pervenuto è il dato dell’opposizione sociale e politica a questa situazione sia a destra che a sinistra: con un centro destra svanito ormai simile ai partiti di notabili ottocenteschi e una coppia Lega-CinqueStelle intenta a soffiare sul fuoco dell’emergenza migranti, chi con pulsioni piu’ guerrafondaie chi piu’ invece basate su una lotta anti-corruzione puramente di facciata; per non parlare di ciò che si muove a sinistra, ormai incapace di qualunque presenza reale e di immaginario nella società.
Eppure il quadro transnazionale sembra andare in disaccordo con questa situazione, dato che la governance che sul piano locale Renzi riesce ad assicurare al paese scompare al livello piu’ elevato sottolineando i forti rischi “esterni” sulla stabilità sistemica del nostro paese. L’enfasi di Renzi su parole d’ordine come quella della flessibilità rispetto ai Trattati cozza con una volontà ben diversa agita da parte del blocco dei paesi dell’Europa settentrionale legati alla centralità della Germania. Questo scontro deriva di fatto dalla consapevolezza comune che una nuova ondata di crisi finanziaria è alle porte, e che l’Italia sarà probabilmente uno dei paesi destinati a vederne scaricata su sé stessa l entità, probabilmente insieme a stati come la Grecia il cui futuro dentro l’Unione potrebbe essere nuovamente minacciato al fine di ulteriore approfondimento dei dispositivi di saccheggio sociale basati sui Memorandum. Un quadro, quello economico transnazionale, che sta già portando a scontri interni alle elites dei principali paesi: basti pensare alla vicenda del Brexit, a quello che è il continuo divaricarsi tra l’opzione europeista di Hollande e quella neonazionalista della Le Pen in Francia, allo scontro nella stessa Germania tra le “colombe” merkeliane e i “falchi” di Schauble su una ulteriore stretta su politiche ordoliberali.
Ma il caos globale è ben piu’ elevato, arrivando a toccare perfino gli Stati Uniti. La stessa campagna elettorale, dove le prospettive piu’ centriste e di establishment sembrano liquefarsi di fronte all’avanzare di progetti “estremi” (per quanto, ovviamente, iper-compatibili rispetto alle coordinate globali del sistema capitalistico) come quelli di Trump e Sanders. Il primo è espressione della parte piu’ reazionaria della società americana: arroccata nella difesa dei propri privilegi, nel mantenimento delle prerogative delle proprie lobby (soprattutto quella delle armi), nel non voler rinunciare al discorso del primato morale oltre che economico della propria nazione. Il secondo tentativo di ricomprendere all’interno del quadro istituzionale quella parte di società americana che delusa da Obama e dalle sue promesse di cambiamento rischia di perdere ogni fiducia nello zio Tom e nell’American Dream, minacciando di rivolgersi ad altre opzioni politiche di riscatto come in parte quelle che hanno sviluppato soprattutto le minoranze afroamericane negli ultimi anni a partire (ma non solo) da una rinnovata opposizione alla brutalità poliziesca che è cifra del comando interno statunitense.
L’instabilità interna per gli yankee è un rischio enorme, in una congiuntura in cui la questione mediorientale rischia di segnare un ulteriore e definitivo passaggio della perdita di credibilità americana. E sotto gli occhi di tutti come sia la Russia di Putin a guadagnare consenso nell’area, diventando attore regionale fondamentale a tutti gli effetti e in grado di negoziare l’exit strategy del conflitto siriano dopo pochi mesi di entrata in gioco nel conflitto, approfittando delle tensioni interne all’area sunnita e dell’impossibilità americana di un vero impegno sul campo. Le borse in crollo costante riflettono questa situazione di instabilità globale, con il prezzo del petrolio ai minimi storici, la corsa all’accaparramento dell’oro, la situazione debitoria di molti istituti di credito potenzialmente esplosiva, i dubbi sulla tenuta della locomotiva cinese, il cammino ondivago delle istituzioni monetarie americane a completare ulteriormente il quadro.
Quali indicazioni provare a dare in questa fase, consci del fatto che si apre un percorso dalla difficile sintesi tutto aperto alla necessità di un approfondimento del dibattito? Ci sembra pacifico dire che, dalla situazione politica dei territori prima descritta, deriva un vuoto enorme di prospettiva politica per ampie fasce di popolazione. Vuoto che può essere colmato a partire dalla presenza molecolare negli ambiti sociali dove piu’ si sente la materialità della crisi, cercando di comporre e non di mettere uno contro l’altra le composizioni sociali che incarnano possibilità di espressione antagonistica del rifiuto dello stato di cose presenti.
La lotta per la casa a suo modo offre la possibilità di stare nei territori, coglierne le pulsioni piu’ profonde, radicandosi in profondità sopratutto nelle periferie e alzando il costo sociale delle figure della nuova povertà. Ha saputo, dove si è sviluppata, agire come elemento di riscatto delle comunità piu’ colpite dall’austerità, provocando reazioni isteriche nella controparte (non ultimo il caso di Padova) che ha visto sotto attacco uno dei maggiori ambiti di estrazione di valore e di ricatto/controllo sociale. Ma è evidente che da sola non è sufficiente a piani piu’ massificati di ricomposizione politica, per quanto dati i numeri sugli sfratti sia decisamente necessaria: tracce necessarie di ricomposizione politica possono essere trovate nell intreccio tra la lotta per il diritto all abitare e il mondo del lavoro ad esempio, in un contesto nel quale residenza e lotta contro il piano Casa, permesso di soggiorno e resistenza alla tuttora necrogena Bossi-Fini, posto di lavoro e rottura del JobsAct sono strettamente legati.
La lotta nei magazzini della logistica (e non) può offrire infatti una possibilità di allargamento della conflittualità sociale, dato che sono ormai innumerevoli le vertenze che si danno nelle piccole medie e grandi imprese del nostro paese, agite da una composizione che disincarna sé stessa dalla figura del “migrante” desideroso di attenzioni politiche da parte dei militanti per divenire sempre piu’ avanguardia di lotta in grado di riprodurre a livello massificato le proprie modalità di conflitto. Intensificare i rapporti tra la conflittualità operaia e le forme di lotta diffusa sul territorio portata avanti dal proletariato soprattutto giovanile può essere una traccia di lavoro politico importante.
Non possiamo poi dimenticare la funzione di attivatore sociale che stanno svolgendo le mobilitazioni territoriali che si esprimono nel rifiuto delle grandi opere, a partire dalla sempreverde lotta NoTav, così come nella ostilità verso le trivellazioni, verso le servitu militari, verso la costruzione di nuovi inceneritori. Mobilitazioni di diverso tenore e intensità, capaci però di unirsi in uno slogan come quello che afferma la lotta contro la devastazione e il saccheggio dei territori che minaccia la controparte di poter essere sempre piu’ attivo e vigile nei mesi a venire anche per il fatto che la forma di valorizzazione del capitale nella crisi cerca sempre di piu’ di prevedere al suo interno lo sfruttamento coatto del patrimonio naturale a fini energetici o di cementificazione ulteriore utile solo alle grandi lobbies legate al potere politico.
C’è poi l’ineludibile questione della soggettività giovanile: del resto, il trionfo di Sala alle primarie di Milano è anche la vittoria del ducetto del modello Expo, del modello che vide centinaia di migliaia di giovani esultare alla possibilità di poter lavorare gratuitamente nei padiglioni meneghini. Una vittoria della promessa renziana che va di pari passo con una delle grandi questioni che nei prossimi anni caratterizzeranno il mondo della formazione tutto, ovvero quello dell’alternanza scuola-lavoro che vedrà milioni di giovani prestare sotto forma di attività curricolare il proprio lavoro gratuitamente credendo pure di ricevere un favore!
Una dinamica che avrà probabilmente ricadute enormi sul tasso di disoccupazione (chi assumerà piu’ se avrà la possibilità di utilizzare forze fresche ogni anno all’interno delle proprie aziende?) e che apre interessanti risvolti sulla possibilità di chi lotta (e nel campo della formazione, e nel campo del lavoro) per poter agire sulla questione: non solo per richiedere diritti come il pagamento delle ore lavorate ma anche per attaccare nel suo complesso il dispositivo di sfruttamento creato e la sua strategicità nella ristrutturazione capitalistica ai tempi della crisi globale.
Questo quadro ci pone di fronte ad una riflessione sul tema della guerra alle porte. L’ opposizione ai tamburi di guerra che suonano nel nostro paese, sul piano politico e mediale, non potrà che partire dal rifiuto della colonizzazione interna che si estende con gran forza su tutti gli ambiti sociali sopra descritti. Non è all’ordine del giorno per i movimenti un pacifismo imbelle incapace di andare oltre qualche grande manifestazione dotata di arcobaleni e simboli della pace disegnati sul viso: l’opposizione alla guerra potrà darsi come reale possibilità di rottura solo se riuscirà ad essere collegata a percorsi di conflitto reale, che leghino il nodo bellico esterno a quello del controllo interno che assicura la producibilità e il sostegno al primo.
In questo senso la chiamata del sindacato SI Cobas allo sciopero generale contro la guerra, previsto per il 18 marzo, è un occasione da cogliere, rilanciare e approfondire con la mobilitazione sociale dei territori a partire dalle proprie forme di radicamento nei vari contesti. La massificazione dell’opposizione sociale alla guerra non potrà che darsi dal rilancio del conflitto nei territori e dal rifiuto delle pratiche molecolari di sfruttamento che si snodano in maniera diversificata nella società.
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