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RiseUp 2.1. Appunti per un autunno di lotta

Mentre ai quattro angoli del mondo si aprono nuovi cicli di lotta, più o meno alti, più o meno conflittuali nella cornice di una crisi economica che è immediatamente crisi di civiltà e quindi di soggettività (capitalista: nella sua narrazione, costruzione di discorso, di tradizione, di possibilità, di senso comune, desiderio, bisogno e prospettiva) una grande assente fatica ancora ad affacciarsi, l’Italia. Non che dei cicli di lotta territoriali o specifici anche di alta intensità non si siano dati, ma tutti finora senza la capacità di essere generalizzanti e costituenti in questa generalizzazione. Il No Tav, gli scioperi della logistica, le occupazioni di case e la lotta agli sfratti, i cicli (discontinui) autunnali e primaverili degli studenti e le esperienze di liberazione di spazi sociali di nuova generazione sicuramente ci danno un tracciato movimentato, ma incapace ancora di esplodere in una dimensione massificata.

In questo scenario abbastanza complesso però, chi parla di fase “regressiva”, chi sostiene la necessità di correre ai ripari, di difendere le briciole (poche) che ancora rimangono sul tavolo con un “riformismo buono” ci sembra dimentichi di nuovo di guardare alla composizione di classe e ai comportamenti incompatibili all’esistente, spesso individuali e a volte prepolitici che sussistono in essa dentro il panorama della crisi. La sfida all’oggi per noi è semmai organizzare, generalizzare e indirizzare questi comportamenti all’attacco, per provare a rovesciare il tavolo, o almeno a farlo traballare.

Ricette, come sempre, non ce ne sono, ma il nodo ci sembra è ancora una volta la soggettività (questa volta la nostra). Una soggettività arretrata all’oggi di fronte alla violenza dell’attacco che ci viene portato, ma che è necessario sostanziare, sviluppare e costruire dentro le contraddizioni del capitalismo. “Costruire le condizioni per…” oggi dev’essere la parola d’ordine agendo lì dove necessario anche forzature soggettive che stiano dentro il senso comune e che aprano spazi e indicazione. Rendere visibile e realistica per i più un’opzione alternativa e antagonista all’organizzazione del vivere esistente, alla sua espropriazione continua di relazioni e ricchezze sociali diventa necessità. L’autunno che verrà sarà verifica in questo senso di ciò che è stato già fatto e piano di lavoro per le ipotesi che qui vengono proposte.

Dentro il mondo della formazione all’oggi c’è da fare i conti con un complessivo cambio di fase, a Riforma Gelmini approvata la ristrutturazione della scuola e dell’università traccia delle notevoli trasformazioni in questi dispositivi e anche nella composizione che li attraversa. Se i dati parlano chiaramente di un esodo dall’università, questa rimane ancora un luogo (residualmente) massificato, e nella produzione, sebbene sempre più dequalificata, di saperi spazio di contro-soggettivazione fondamentale. Un campo di intervento da indagare nuovamente e necessariamente da attraversare dentro le nuove contraddizioni che si aprono. Venuto meno il miraggio di impiego per grandi numeri di giovani laureati e l’esplicita necessità di ridimensionamento determina una tensione non da poco in un sistema della formazione costretto economicamente a dismettere pezzi (anche fisicamente) “inutili” di università e dall’altro lato a trovarsi masse di giovani che la attraversano.

A questo si affianca però in maniera sempre più netta l’emersione di un soggetto giovanile nuovo, che non si intercetta se non collateralmente dentro i gangli del mondo della formazione, ma che ha dimostrato diverse volte una potenza conflittuale importante. Indagare dove si muove questo soggetto, quali sono i suoi bisogni e desideri, costruire momenti di identificazione larga e ricomposizione, provare infine ad organizzarlo con continuità diventa una prospettiva mordente.

Insomma la sfida è alta, ma altrettanto alta è la posta in gioco. Sta a noi aprire la partita!

 

Mappe del conflitto, le lotte che solcano i confini

Sul fronte delle lotte, questi ultimi mesi ci restituiscono un quadro transnazionale di certo disomogeneo ma per certi versi effervescente nel quale alcune esperienze si sono rivelate in grado di raggiungere livelli massificati e fortemente conflittuali.

Tra le esperienze più recenti abbiamo guardato con interesse alle rivolte esplose in Turchia e a quelle che hanno successivamente attraversato il Brasile, tentando di leggerle superando i racconti appiattiti che ne venivano fatti dal mainstream delle nostre latitudini e cercando piuttosto di cogliere quanto quelle esplosioni stavano esprimendo.

Pur nelle peculiarità e differenza dei due contesti, in entrambi i casi battaglie nate con rivendicazioni circoscritte hanno fatto da vettore per l’apertura di un conflitto più ampio: in breve la mobilitazione turca andava ben oltre la difesa di un parco e quella brasiliana non chiedeva semplicemente il ritiro degli aumenti sulle tariffe degli autobus.

A riprova di questo, il fatto che le proteste partite in una singola città abbiano in breve contagiato tutto il paese rafforzandone la potenza con un effetto virale e facendo emergere insoddisfazioni diffuse che con l’esplodere della mobilitazione hanno trovato uno spazio nel quale esprimersi.

Pur dentro una composizione vasta, i volti che abbiamo visto animare i momenti più caldi della protesta, quelli che erigevano barricate e resistevano a lacrimogeni ed idranti erano quelli di giovani e giovanissimi, studenti e non che hanno visto nella piazza uno spazio in cui ognuno potesse dar voce ai propri bisogni e alla propria rabbia che nel momento del conflitto si fondevano assieme nella richiesta di cambiamento.

A Rio de Janeiro i cartelli esposti durante i cortei rivendicavano il diritto ad un’esistenza migliore, scuole, trasporti e servizi gratuiti contro la corruzione di un intero sistema politico percepito con insofferenza e lontano anni luce dai bisogni di migliaia di persone messe al margine dalla costruzione di un’immagine del Brasile funzionale al suo ruolo di vetrina per i grandi eventi (non a caso molte proteste si sono spinte sotto gli stadi che ospitavano le partite della Confederation Cup).

Da piazza Taksim il grido di ‘Erdogan vattene!’ si è fatto via via più forte mentre la lotta per la difesa di Gezi park diventava battaglia per la riappropriazione dello spazio contro gli effetti di un ‘progresso’ sinonimo solo di speculazione e buoni affari per i poteri forti locali; nei presidi e nei momenti della lotta si scopriva un nuovo modo di vivere e organizzare assieme la propria quotidianità e si difendeva tutti assieme l’occupazione della piazza.

Recentemente anche la Tunisia è tornata ad infiammarsi dopo l’uccisione di Mohamed Brahmi, militante e deputato del Fronte Popolare (organizzazione che riunisce partiti e associazioni della sinistra comunista, rivoluzionaria o nazionalista), assassinato a colpi di pistola lo scorso 25 luglio. Un vero e proprio omicidio politico che ha riacceso la rabbia di migliaia di persone contro Ennhadha (il partito islamista eletto a soggetto della ‘transizione democratica’ dopo la caduta di Ben Ali) che ha ben presto calato la maschera del cambiamento a favore del volto di un vero e proprio regime che ha poco da invidiare ai suoi predecessori benalisti in termini di repressione e impoverimento del popolo tunisino.

Gli eventi seguiti all’omicidio di Brahmi sono l’ennesima riprova del fatto che l’onda lunga dei processi insorgenti esplosi in nord Africa nel 2011 non ha ancora esaurito la propria potenza e che la rabbia che fece crollare Ben Ali non è stata messa a tacere dando semplicemente un volto nuovo ad un regime rimasto corrotto e reazionario.

La mobilitazione nata sul finire di luglio ha sperimentato nuove forme di lotta: alle normali manifestazioni di piazza e agli scioperi ad oltranza si sono aggiunti l’assedio al ministero degli Interni, il blocco dei servizi e del pagamento delle tasse.

La regione di Sidi Bouzid si è poi dichiarata autonoma rifiutando di riconoscere tutte le istituzioni del potere centrale e invitando le altre regioni a fare altrettanto, mettendo in seria difficoltà il partito islamista con una scelta di delegittimazione forte e aprendo le prime crepe nel regime.

 

Pur senza perdere di vista la specificità di ogni contesto in cui le lotte possano svilupparsi a partire dai territori, vogliamo guardare agli spazi che si aprono nel contesto transnazionale sempre con un’ottica di reciprocità, di solidarietà e di organizzazione di nuove lotte e conflitti, così come suggerivano le parole che gli occupanti di piazza Taksim hanno inviato al movimento No Tav per sottolineare la comunanza e la complicità tra le due battaglie.

 

Reddito e forme di vita, per una socialità conflittuale

Con la conclusione di un ciclo ventennale di riforme che ha trovato in Gelmini e Profumo i suoi ultimi interpreti, assistiamo alla compiuta transizione dell’Università verso lo status ibrido di forma organizzativa iperefficente appiattita sul criterio della performance quantitativa, da un lato, e istituzione in stato di parziale dismissione, dall’altro. All’apparente contraddittorietà dell’assunto fa riscontro una realtà tanto univoca quanto coerente: un’autostrada a tappe obbligate, dove fermarsi a consumare merce di pessima qualità all’autogrill e programmata per evitare l’incontro, la sosta, il ripensamento, lo scarto, lo scontro frontale. L’abbandono di ogni velleità di “bene comune” da difendere si fa strada nella composizione studentesca di pari passo all’insofferenza per una logistica della formazione che non prevede tempi morti né spazi della relazione. Allo stesso modo, dentro la composizione giovanile metropolitana, sembra sostanziarsi, accanto ad altre forme di rifiuto e sottrazione, la disponibilità alla messa a critica di un’organizzazione del quotidiano che, più che in altri periodi della storia recente, erode gli spazi della connessione sociale e le risorse di qualità della vita. Persino l’infrastruttura capitalistica dell’intrattenimento sembra diventare oggetto di una profonda ristrutturazione: basti pensare alla pioggia di ordinanze contro la movida, per esempio. Un angolo di piazza o di parco in un quartiere periferico, l’area di un polo universitario dove poter pranzare, una biblioteca dove da anni si intrecciano relazioni e pause di socialità, rappresentano altrettanti esempi di quei luoghi di compensazione, nient’affatto esteriori ai cicli di consumo e riproduzione capitalista, che tuttavia sono oggi interessati da una nuova espropriazione che riorganizza tempi e spazi della riproduzione sociale.

Man mano che il capitalismo dimostra di superarsi sul suo stesso terreno, eliminando o ridefinendo quei luoghi di ‘sottrazione’ o compensazione ludica prima incorporati nella dimensione integrata delle città, erodendo le soggettività finora accumulate ad uso e consumo dei cicli produttivi metropolitani e terziari, si manifesta una nuova indisponibilità all’esproprio, sorprendentemente anche su terreni in apparenza meno brutali e violenti di attacco al reddito. Pensiamo agli alberi di Piazza Taksim, al rincaro dei trasporti che hanno costituito il potente detonatore delle proteste turche e brasiliane. Si tratta di una difesa delle forme di vita della composizione metropolitana che, se probabilmente nasce come rivendicazione di una qualità di esistenza che è anche precondizione di impiegabilità futura (mobilità, relazionalità, vivibilità del tessuto urbano), nondimeno ha saputo generalizzarsi e sostanziarsi, aprendo la strada per un’intera generazione alla graduale disidentificazione di bisogni e qualità delle condizioni di riproduzione di sé dagli imperativi del mercato e del profitto, fino al loro antagonismo. Non a caso l’occupazione ed autogestione di spazi urbani (acampadas, occupy, etc) è emersa come uno dei tratti che accomunano le lotte degli ultimi anni, sulle due sponde del mediterraneo e oltreoceano, esprimendo un’esigenza di riscrittura radicale e non ulteriormente posticipabile di relazioni, tempi, spazi e risorse dell’esistenza, senza attendere il permesso.

In Italia, su scala ben più ridotta, le piccole ma numerose esperienze di autogestione e lotta nate dentro o ai margini dell’Università del dopo Onda, con la capacità che hanno espresso di sedimentare aggregazione, testimoniano il medesimo bisogno diffuso, entro la composizione giovanile, di riappropriarsi di spazi di socialità e relazione, di sperimentare condivisione del quotidiano e cooperazione. Si tratta di un’attenzione verso le forme di vita che, sì, trova terreno di coltura, ma non è completamente esauribile nel contesto delle lotte sul reddito (studentati, DSU, etc) o sui saperi, costituendo piuttosto un’eccedenza che, producendosi più o meno spontaneamente nei cicli di lotte e nella loro capacità di sedimentare legame sociale e spazi di socialità altra, tende sempre più ad emergere (accanto o trasversalmente agli altri due) come catalizzatore di bisogni e desideri di una composizione in forte trasformazione. Bisogni e desideri che, se originano anche in questo caso dagli stessi processi di soggettivazione capitalistica che hanno sostanziato per anni i cicli metropolitani del consumo, della formazione, della produzione di forza-lavoro più o meno ‘immateriale’, rappresentano, in quanto aspettative disattese, un punto di frizione potenziale. La capacità di attraversarli ed interpretarli, in quanto dinamiche sociali potenzialmente antagonistiche, ci impone di fare i conti con due interrogativi: quale controsoggettivazione possibile in questo contesto? Quale stile di militanza possibile? Non si tratta di questioni da poco considerata la natura di tali dinamiche: potenti terreni di riaggregazione che tuttavia, sparigliando le carte dei rapporti fra mezzi e fini della lotta, rischiano non solo di rimanere schiacciati sul presente ma anche di assolvere una funzione compensativa, lavorando al servizio della supplenza e della compatibilità. Se l’unica arma contro tale rischio è la capacità, da parte delle soggettività militanti, di operare un continuo rilancio progettuale è indubbio che quest’ultimo, oggi più che mai, per essere amplificatore di potenza piuttosto che fattore di separatezza ed autoreferenzialità, debba fare i conti con le forme di consistenza sociale reale che riesce a costruire. La centralità che sembrano rivestire oggi la socializzazione del quotidiano e la riappropriazione di forme di vita nella costruzione di appartenenza ai movimenti così come nelle dinamiche sociali a scala più ridotta e territoriale, è infatti solo l’altra faccia della medaglia di ciò che tematizziamo come crisi della rappresentanza in atto. E che costituisce probabilmente un plesso di problemi e questioni che non possono non interrogare anche i soggetti politici antagonisti nella relazione con piazze ed esperienze la cui irrappresentabilità non è interpretabile univocamente come punto di caduta della politica istituzionale e del sistema partiti. La richiesta di un altro rapporto della politica con la vita è infatti espressione di una saturazione e di una insofferenza, che opera trasversalmente quando non ambiguamente verso ogni forma di separatezza. E che , nell’elaborazione di una progettualità radicalmente trasformativa, impone di fare i conti con limiti e potenzialità dell’ingovernabilità dei fenomeni sociali. Si tratta ovviamente di questioni complesse, rispetto alle quali nessuna opzione a tavolino è elaborabile a priori (slegata dalla prassi dei processi concreti) ma sulle quali, nel raggio pur ristretto del nostro agire e in assenza di un equivalente italiano alle mobilitazioni su scala globale, conteranno probabilmente tanto la capacità di operare forzature che sappiano rivelare umori profondi quanto la capacità di interpretare e inerire ai processi già in atto. E dove la dialettica che di volta in volta sapremo agire fra forme di internità e spinte progettuali ridefinirà il nostro collocamento sul campo e, forse, la posta in gioco.

 

Giovani tra università e metropoli

A sei anni dalla sua esplosione la crisi economica globale ha accelerato e imposto trasformazioni nell’organizzazione sistemica e altrettanto ha scavato nelle vite di chi sta in basso. Parallelamente i tre anni passati dalla sconfitta del movimento NoGelmini non hanno visto movimenti di massa nascere nelle università della penisola, piuttosto una diffusione capillare di vertenze, di esperienze di lotta, riappropriazione ed autogestione. Tuttavia è mancata un’esplosione massificata e la generalizzazione di rivendicazioni e pratiche. Ancora una volta (un vero processo interminabile) abbiamo di bisogno di riflettere collettivamente per immaginare forme di intervento politico e di lotta che si innestano su nuove tensioni, con nuove ambizioni.

I processi di ristrutturazione innescati dalle riforme degli ultimi vent’anni (cosi come le retoriche governative bipartisan) sono informati dalle dinamiche della divisione internazionale del lavoro: certamente in maniera farsesca come tipico della politica italiota, ma non in controtendenza alle necessità dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Non è un fulmine a ciel sereno; se dopo il ’68 la dialettica tra lotte e necessità capitalistiche hanno prodotto quello che chiamiamo università di massa, già dalla fine degli anni ’70 alcuni osservatori registravano la sovrapproduzione di forza lavoro qualificata, che però il mercato del lavoro riusciva a riassorbire sebbene non ne avesse bisogno. Da un lato il tentativo di sfuggire al lavoro di fabbrica tramite il canale universitario, dall’altro trasformazioni epocali del lavoro capitalista che si andava terziarizzando. Tuttavia negli ultimi anni, complice le crescenti difficoltà nell’accumulazione del capitale, i nodi sono venuti al pettine: è esperienza comune di chi appena laureato o uscito da un dottorato quella di trovarsi a svolgere lavori per cui sono richieste qualifiche (e relativi salari) molto inferiori oppure non assunti proprio perché “troppo qualificati”. In tempi di crisi i costi sempre più elevati per mantenersi agli studi sta producendo proprio un esodo dall’università, mentre chi se lo può permettere la frequenta strumentalmente per posticipare di qualche anno il problema del mantenimento autonomo e parallelamente per ottenere “il pezzo di carta”, sebbene coscienti del suo basso valore. Se con le riforme Gelmini e l’introduzione di fatto del debito studentesco qualcuno si immaginava uno scenario simile agli USA, dobbiamo rilevare che questa pratica ancora non si è diffusa. Vista la fine della funzione di ascensore sociale dell’università, indebitarsi per studiare è un passo poco saggio perché difficilmente si potrà ripagare il debito, piuttosto meglio lavorare. Queste trasformazioni si rispecchiano nel modo in cui l’università viene vissuta dagli studenti, ovvero sempre più velocemente cercando di uscirne il prima possibile: sia per quanto riguarda il percorso di studi perché costoso, sia per quanto riguarda i suoi locali fisici perché non offrono altro che disciplinamento e frammentazione.

Tuttavia non pensiamo che l’attuale, difficile, fase universitaria ci autorizzi ad abbandonare il campo, rinunciando a creare conflitto nelle istituzioni capitalistiche, delegittimandole e disarticolandone le componenti.

Viene meno l’illusione dell’università che permette di realizzarsi, che fa crescere personalmente e culturalmente, da difendere dagli attacchi di una classe dirigente ignorante oppure da imprenditori alla ricerca del profitto. L’università diventa una diretta controparte, i corsi e le lezioni sono mali necessari per finire il percorso di studi e nessuno si aspetta altro che saperi dequalificati. La pratica dell’autoformazione è da ripensare, anche radicalmente, aggiornadola; invece che momento di costruzione di sapere di parte, capace di mettere in crisi quello trasmesso dai cattedratici, spesso si è limitata ad essere un sostitutivo delle mancanze dell’università, limite che nella fase attuale comporta incapacità di costruire contrapposizione. Dicevamo università come controparte, da cui rivendicare migliori servizi e ritmi più lenti, insomma elementi di una migliore qualità della vita tra quelle mura. Queste rivendicazioni vertenziali possono quindi diventare un campo di radicamento e soggettivazione sfruttabile in chiave antagonista, soprattutto perchè gli organismi di rappresentanza e i sindacatini studenteschi vivono una pesante crisi, incapaci di rispondere ai bisogni degli studenti. Ancora più insufficienti lo sono perché nella composizione studentesca non è più possibile dimenticarsi delle tensioni del tessuto metropolitano, del bisogno di reddito diretto ed indiretto. Non è un caso la diffusione che ha avuto l’occupazione di studentati. Da questo punto di vista questi, quando non si limitano ad essere semplici edifici occupati, diventano luoghi di sperimentazione di alterità all’esistente, di aggregazione (non solo di studenti) e di accumulo di forze. Le università rimangono luoghi di conflitto potenziale: sia come agenzie di formazione di soggettività sia come luoghi di concentrazione di giovani con ritmi, necessità e prospettive simili. Di fronte al disciplinamento imposto da costi, appelli e lavoro quest’anno abbiamo assistito a momenti di conflitto diffuso intorno ad esperienze di autogestione di spazi, squarci di possibile alterità nella frammentazione imposta dall’università odierna. A partire da questi spazi sono sempre più diffusi gli aggregati giovanili disponibili alla mobilitazione e alla lotta che però non riconoscono le mura universitarie come unico spazio da agire. La sfida che si apre è quella di farli esplodere nell’università e nel tessuto metropolitano.

Pensiamo sia necessario pensare nuovi modi di agire politico, nuovi conflitti dentro le università, anche abbandonando alcune consuetudini dei movimenti passati. Per questo il confronto ed il dibattito hanno un ruolo importante, ma soprattutto la sperimentazione pratica nella concretezza delle lotte.

 

Blitzkreig tweet. Come farsi esplodere in rete 

Quanto può essere importante riuscire a superare la linea Maginot dei vecchi (e stanchi) media tradizionali? Perchè con un semplice aggiornamento di stato si riescono a creare falle e crepe nel muro di gomma del giornalismo a senso unico? In che modo queste ultime diventano voragini capaci di invertire totalmente il marketing pubblicitario di un’azienda o l’andamento di una campagna elettorale?

Le risposte a queste domande le trovate all’interno di Blitzkreig tweet di Francesco De Collibus, un’utilissima guida per, letteralmente, “farsi esplodere in rete”.

 

Attrsaverso l’uso di metafore belliche e di un liguaggio tagliente molto comprensibile, l’autore di questo saggio ci accompagna nel mondo dei social network superando con semplicità e arguzia i suoi luoghi comuni più scontati. Niente “rivoluzioni di Twitter” o azioni salvifiche di Facebook dunque, soltanto gli strumenti e le tattiche più efficaci per colpire direttamente al cuore della comunicazione mainstream ed invertirne, quando possibile, la tendenza.

Attraverso due macrocapitoli impariamo così come “vincere le battaglie” in rete, grazie ad una semplice intuizione postata nel momento giusto o ad accurate tecniche di “bombardamento” via tweet su singoli obiettivi. Ma capiamo anche come “impostare le guerre” evitando scivoloni gratuiti o banalità scontate, cercando sempre di muoverci con molta dicrezione nel mare nostrum di internet ma senza disdegnare le occasioni che ci si parano davanti, sempre pronti a scatenare una nuova tempesta.

 

Nessun facile entusiasmo dunque, ma ancora una volta la consapevolezza di poter strappare alle mani della controparte non solo parte dei suoi strumenti, ma anche del suo protagonismo. Nell’attesa di un futuro che ci appare sempre più incerto (secondo l’autore “la metà dei lettori di questo libro non ha né un lavoro né la speranza di poterlo trovare”, e non possiamo fare altro che prederlo come un dato di fatto), non ci accontentiamo del presente ma proviamo a riprendercelo, magari con mezzi nuovi ma sempre con la stessa determinazione!

 

www.cuatorino.org

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