Se il nemico trema
Oggi, 9 febbraio 2012, è una giornata importante per i movimenti. In mattinata è stato reso noto il pronunciamento del tribunale del riesame in merito ai casi di quattro No Tav arrestati il 26 gennaio: nessuno è stato liberato e, se due sono stati trasferiti ai domiciliari, altri due, Giorgio e Luca, sono stati tenuti in carcere e trasferiti d’urgenza, rispettivamente a Saluzzo e Ivrea. Lo stesso destino toccava, dopo poche ore, ad altri in attesa di riesame: Jacopo, trasferito ad Alba, Tobia, trasferito a Cuneo, e Mambo, trasferito ad Alessandria. Nelle edicole torinesi il quotidiano La Stampa riportava dall’alba le dichiarazioni dei rappresentanti dell’OSAPP, il “sindacato” della polizia penitenziaria: “Questo gruppo di detenuti No Tav svolge un’intensa campagna di propaganda e di proselitismo all’interno della decima sezione del padiglione C. Ci sono già abbastanza difficoltà per gestire la situazione dell’ordinaria amministrazione, non possiamo disperdere altre preziose energie per affrontare un quadro che ricorda l’atmosfera dei ‘bracci’ politici degli Anni ‘70- ‘80. Il trasferimento di questi soggetti dell’area antagonista andrebbe deciso nelle prossime ore, per evitare altri prevedibili incidenti”.
I compagni in carcere hanno più volte rifiutato di tornare nelle loro celle dopo l’ora di socialità, un periodo di 120 minuti in cui ogni prigioniero avrebbe diritto a passeggiare nei corridoi e comunicare con gli altri detenuti della sua sezione, anche entrando nelle altre celle, che devono restare aperte. La protesta è avvenuta, come riportato da una lettera scritta dagli stessi arrestati, a causa del mancato rispetto di questo diritto da parte delle guardie, su ordine del direttore del carcere Pietro Buffa. Non più un libero passeggiare di due ore, ma tempi più stretti, intimazioni a restare nelle celle e porte sbarrate. Inoltre, a causa della negligenza delle autorità, che non hanno provveduto a rimuovere la neve dal cortile, persino la famosa “ora d’aria” (in realtà quattro ore durante le quali, per disposizione ministeriale, ogni detenuto ha diritto a restare all’aria aperta) è stata abolita. Come se non bastasse, nel febbraio più gelido che Torino ricordi da molti anni (diciassette gradi sotto lo zero), il riscaldamento non è adeguato; le coperte sono insufficienti e sono state addirittura negate a Jacopo la prima notte; Gabriela, sola nel braccio femminile, si trova in una cella senza finestre e dorme su un materasso infestato dalle pulci; e tutto questo senza contare le mille limitazioni che hanno dovuto affrontare parenti e compagni per parlare con i detenuti o anche soltanto per fare loro avere libri e vestiti, questi ultimi particolarmente urgenti visto il freddo.
Questo il contesto della protesta dei compagni che, contrariamente a quanto riferito dai giornali (che come al solito si limitano a riportare quanto dichiara la controparte, senza verificare se mente) non hanno desistito in seguito a un colloquio con il direttore, ma a causa dell’intervento della squadretta di nerborute guardie che, dopo averli inutilmente minacciati, li ha sbattuti di peso nelle celle. Come riferisce la loro lettera, il primo tentativo da parte delle guardie era stato “non-violento”: con un infame ricatto, avevano minacciato tutti i detenuti della sezione di abolizione dell’ora di socialità se i No Tav non fossero rientrati nelle celle. Un infame lavoro quello della guardia, nel quale l’ordine può essere mantenuto soltanto con la violenza o cercando di mettere gli uni contro gli altri esseri umani nella stessa condizione di prigionieri, cercando di far leva sulla paura, sulla stanchezza, creando diffidenza reciproca. Purtroppo per loro, stavolta, il giochetto non ha funzionato: i detenuti hanno dato il loro assenso alla protesta, consapevoli che avere compagni di sezione supportati da migliaia di persone fuori dalle sbarre è una forza che va utilizzata, almeno finché è possibile. Mentre aveva luogo l’ultima protesta, inoltre, le mura del carcere erano investite dai bassi degli impianti dei centri sociali Askatasuna e Gabrio, uniti nello sforzo di far arrivare ai prigionieri le note di Militant A e dj Bonnot, e le parole dei No Tav che intervenivano dal palco.
È allora che il direttore ha deciso di ricevere i detenuti che avevano protestato, e dispensare loro un mare di chiacchiere, tanta gentilezza e tanto paternalismo, com’è tipico nelle odierne società democratiche, dove l’oppressione deve essere sufficientemente mistificata dalla retorica del diritto e del dialogo, affinché nessuno la metta più in discussione. Anche lui, però, è cascato male: i compagni hanno ribadito le ragioni della protesta, rifiutando anticipatamente qualsiasi concessione individuale e chiedendo il ripristino di migliori condizioni detentive per tutta la prigione torinese. Il direttore ha allora chiesto tempo per una riflessione ma, appena usciti i nostri compagni, ha alzato la cornetta e chiamato prefetto e procuratore. La procura ha disposto il trasferimento d’urgenza dei compagni nelle altre carceri: troppo pericolosi, troppo coraggiosi, troppo consapevoli; sono un pericolo per l’ordine interno al carcere, evidentemente così fragile, e soprattutto per il dogma dell’individualismo che, se regna fuori, a maggior ragione deve regnare dentro, dove la solidarietà deve essere impossibile, perché per le prigioni colme di detenuti sociali potrebbe essere letale.
Il fatto che un gesto così semplice e che richieste così minime abbiano suscitato una tale reazione isterica da parte delle guardie e della procura è significativo. Il sistema è oppressivo e brutale perché è fragile. L’episodio delle Vallette non va letto come un evento specifico dell’universo carcerario, ma come un evento altamente simbolico della situazione complessiva, storica e sociale, dell’Italia contemporanea. Tutti sopportano, tutti accettano ma non per questo sono d’accordo; tutti hanno paura, comprensibilmente, del proprio futuro e delle conseguenze delle proprie azioni. Tuttavia, il sistema istituzionale, la gerarchia delle mille cricche, l’accozzaglia di tutti coloro che hanno scelto un potere e uno stipendio più o meno grandi in cambio di una mediocre coscienza sporca (dal presidente della repubblica al direttore di un carcere, dal sottosegretario al sindaco al semplice sbirro di periferia) sono terrorizzati da ciò che può celare il silenzio-dissenso della società moderna, anche e soprattutto in questo paese atipico e da tanto tempo martoriato.
In questo contesto l’azione dei movimenti è fondamentale: essa deve essere indirizzata ad approfondire i conflitti e non a risolverli, a lacerare la coesistenza tra gli opposti interessi, a spargere il germe del rifiuto e della ribellione, a scommettere sempre sulla protesta, anche nelle situazioni più avverse. I nostri compagni ci stanno dimostrando che niente è impossibile, quando si agisce con determinazione, sicuri delle proprie ragioni e nel rispetto del contesto sociale in cui si è immersi (in questo caso gli altri detenuti). Come la rabbia della Val Susa il 3 luglio, come i fuochi di piazza San Giovanni il 15 ottobre, anche il semplice “No!” di un gruppo di detenuti, supportati da migliaia di compagni, è un segnale troppo grave per il nostro nemico, che si affretta a reprimere, ma reprime perché trema: questi compagni increspano la calma piatta che deve regnare sovrana, la sola che renderebbe governabile questo mondo. Non li hanno fermati i lacrimogeni alla Maddalena, non li hanno fermati le sbarre delle Vallette, non li fermeranno i trasferimenti. La loro lettera afferma che la lotta non si fermerà, e c’è da giurarci.
Siamo No Tav: fermarci è impossibile!
Network Antagonista Torinese
csoa askatasuna – csa murazzi – colettivo universitario autonomo – kollettivo studenti autorganizzati
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