Siamo fuori dalla crisi vol.4: il grande déjà-vu
Quasi non fa più notizia, le dichiarazioni di Padoan non hanno avuto il prevedibile seguito di autocelebrative parole da parte degli altri membri del governo. Forse perché, per fortuna, a tenere banco è l’espressione del rifiuto del paese reale come la lotta di insegnanti, genitori e studenti contro “la buona scuola”. O forse perché ormai il pubblico che da ancora ascolto ai media mainstream è assuefatto da questo tipo di annunci: prima di Padoan (2015), lo disse già Emma Marcegaglia (2010) in tempi non sospetti, poi Berlusconi (2011), Monti (2012) e Letta (2013).
Tuttavia il fatto ci costringe ad una esplicitare qualche osservazione. Ci stanno vendendo l’aumento di un indicatore statistico, peraltro ridicolo, come l’uscita dalla crisi. Merce avariata utile a riempire qualche articolo di giornale, forse a trovare credito in alcuni settori della società. Ciò che in questi anni abbiamo imparato (anche sulla nostra pelle) è che l’uscita da questa crisi, se esiste, avverrà solo a caro prezzo. E per ora siamo noi a pagarlo.
L’uscita dalla crisi sembrerebbe un orizzonte nazionale che mette d’accordo tutti, dai lavoratori ai padroni, dai grandi imprenditori ai bottegai. È non prendere in conto che con questa classe politica “l’uscita dalla crisi” non è altro che un ulteriore scarico dei suoi costi verso il basso. Fenomeno che sta già avvenendo: all’interno della stessa classe capitalista in base ai differenziali di potere militare, economico e politico; verso le classi inferiori o determinati territori con disoccupazione, debito, austerità e riforme liberiste.
Il dato sul PIL forse permetterà al governo di manovrare la politica fiscale in maniera leggermente meno rigida, perché anche in Europa la linea del rigore assoluto è diventata poco difendibile. Ciò che viene richiesto al governo Italiano è di continuare “sulla via delle riforme”, leggasi politiche volte a eliminare le residue rigidità alla messa a profitto di ogni ambito della società. Quello che non è destinato a cambiare sono gli effetti concreti della crisi sul corpo sociale. Pochi giorni fa Renzi è stato smentito sui dati riguardanti l’occupazione: il premier sbandierava il numero di posti di lavoro “in aumento” ma nella realtà questo dato è stagnante (è invece in aumento la disoccupazione giovanile). Così come si susseguono i casi di sfratti di famiglie che non ce la fanno più ad andare avanti.
Tuttavia non si tratta di confutare la consistenza della crescita da un punto di vista tecnico. Perché c’è un dato politico: dietro la crescita (o presunta tale) c’è il terribile processo di impoverimento, precarizzazione e proletarizzazione che ha subito la stragrande maggioranza del paese reale. Per rincorrere quella che governi e media dipingono come l’unica ancora di salvezza nel caos della crisi globale, interi settori sociali hanno assistito impotenti (o loro malgrado compartecipi) alla demolizione di diritti, alla perdita di possibilità, di garanzie, al calpestamento della propria dignità. Il tutto mentre il 10% più ricco della popolazione ha accumulato il 50% della ricchezza, producendo un differenziale tra i redditi senza uguali nella storia.
Sventolano il sogno della crescita come illusoria merce di scambio, quella in cambio dell’accettazione per un abbassamento costante della qualità delle nostre vite. L’alternativa che abbiamo è quella di costruire dei rapporti di forza tali da sparigliare il gioco per cui chi sta in alto può liberamente scaricare verso il basso i costi della crisi. Dai quartieri in lotta contro l’impoverimento, al studenti ed insegnati contro “la buona scuola”, le possibilità, anche se non sempre chiare, sono in campo. Sta a noi comprenderle e saperle cogliere.
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