Un fucile
Come abbiamo già avuto modo di dire, ci stupiscono ben poco le forme del clamore giornalistico create attorno al video del militante che combatte in Siria insieme alle forze di liberazione curde. Ognuno fa il suo lavoro, e quello del giornalista consiste in questo sistema nel vendere la notizia in modo più eclatante possibile. Ovviamente nessuno stupore per le reazioni dei politicanti, per un silenzio di fronte alle responsabilità del governo italiano che dice più di tante parole, così come per i belati di quello Stefanucchio Esposito che dalla sua comoda poltrona è profumatamente pagato per blaterare idiozie. Per lui e quelli come lui, nella trasparenza della loro opaca miseria, proviamo solo pena e schifo.
A sorprenderci di più, lo confessiamo, sono alcune imbarazzanti posizioni e incertezze che provengono da chi, almeno a parole, dichiara nemicità a questo sistema, o quantomeno alle sue forme più vistose di sfruttamento e oppressione. Come se la lotta andasse bene finché rimane un principio astratto, finché non si incarna nella molteplicità delle sue forme concrete. E in guerra anche un fucile è un mezzo necessario a contrapporsi a chi invade un territorio, colonizza un popolo, opprime e uccide.
Quel fucile non è un’icona ideologica, ma un semplice strumento, come tanti altri ce ne sono. Non si può andare a combattere l’Isis o l’esercito terrorista di Erdogan con mazzi di fiori e palloncini. Dobbiamo invece constatare che, con tutta evidenza, il simbolico è così penetrato nella testa di molte persone “di sinistra” da renderle incapaci di affrontare l’irruzione del reale, bello o brutto che sia.
Quel video va demitizzato e depersonalizzato. Concentriamoci sul messaggio, non sulla figura che lo esprime o l’abbigliamento che lo riveste. Quel messaggio ci dice che quella guerra ci riguarda da vicino. Non solo perché è contro l’Isis, ma innanzitutto perché é contro lo sfruttamento e l’oppressione. Perché decenni di lotta, organizzazione e scontro militare dimostrano che i curdi non vogliono ritornare allo status quo ante l’apparizione del Daesh, ma continuare ad alimentare un processo rivoluzionario.
Quel messaggio ci parla, come sappiamo da tempo, delle complicità tra potenze in apparenza in guerra tra di loro ma nei fatti unite nel preservare il loro sistema di dominio. Anzi, verrebbe da dire che è fin troppo facile, e per alcuni perfino opportunistico, concentrarsi esclusivamente sulla lotta all’Isis. Proviamo radicale avversità per il califfato, non c’é nemmeno bisogno di ribadirlo; e tuttavia l’Isis non é altro che il frutto avvelenato di secoli di colonialismo e imperialismo, di esportazione di guerra e democrazia che ora ritornano al mittente. E del cui orrore fanno ingiustamente esperienza quelle popolazioni, come i curdi appunto, che a colonialismo e imperialismo storicamente si contrappongono.
Allora, un militante usa mezzi differenti a seconda del contesto in cui è collocato. Quello che ne unifica l’azione non sono le icone o le mitologie, ma il fine rivoluzionario. E un militante rivoluzionario è internazionalista, può lottare sulle barricate di Venaus così come sulle trincee di Kobane, e in tutti i luoghi in cui ci si batte in forma collettiva contro lo stato di cose presente. Cosa c’entra la definizione alla moda di foreign fighter, se non a mischiare le acque e a far apparire nell’oscurità della notte tutte le scelte uguali? Forse qualcuno, adagiatosi sulle molli poltrone retoriche dell’attivismo, si cimenterà in mille distinguo moralistici e acrobazie linguistiche per preservare la propria veste di anima bella di fronte all’opinione pubblica, che è l’opinione dei dominanti.
Sicuramente i politicanti non possono tollerare non certo i fucili, ma il fatto che di quei fucili non abbiano il monopolio i loro eserciti, i mercenari e gli scagnozzi al loro servizio. Non possono tollerare che autonomamente si possano imbracciare le armi della libertà.
La verità talvolta è molto più semplice di come appare, basta non perdersi nei fumi delle cortine ideologiche. La verità non riguarda il simbolo dei fucili o fighters da copertina, ma il fatto che da una parte di sono quelli che la guerra la fanno per i loro interessi e dall’altra quelli che la combattono per la libertà. Perché, come già avevamo detto, il contrario di guerra non è pace ma conflitto.
Questa verità si esprime in modo eclatante a Kobane, certo, però nostro compito è farla vivere e affermarla qui dove siamo. Perché oggi più che mai, il mondo basta davvero solo guardarlo per sapere che ribellarsi è giusto.
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