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Bologna: la storia della zona universitaria è indelebile!

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A due settimane da quando i muri di Via Zamboni hanno ripreso ad urlare al mondo i propri desideri, siamo costrettə a continuare a difendere quella rivendicazione di vita bella dall’impellente necessità istituzionale di cancellare qualsiasi traccia di ciò che non viene dall’alto, dalla certificazione, dal riconoscimento unilaterale di chi vuole eliminarci, perché indecorosə, perché bruttə, perché violente e insubordiantə. 

Da Cua Bologna

La zona universitaria di Bologna è sempre stata un crocevia di vite, linguaggi, voci, fulcro e fucina di esperienze collettive che hanno letteralmente forgiato la città, rendendola un laboratorio a cielo aperto di sperimentazione politica. Tutto ciò che di questa città si vuole cancellare nel nome della city of food dell’inclusivity glamour ne è, in realtà, da sempre, il cuore pulsante. La passione per l’autorganizzazione, per il desiderio di libertà, di arte, di bellezza ha trovato spazio di espressione sui muri, sotto i portici, sulle colonne, che da sempre hanno parlato le nostre lingue, che da sempre hanno urlato alla luna e al sole quali fossero le istanze delle generazioni che si sono susseguite nell’intreccio di anni diversi, complessi e di vecchie e nuove lotte, gioiose e difficili. 

Quest’anno, durante il festival della zona universitaria “Le monde est à nous” (https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=pfbid02TEp8SbMJGp1d84McRotCpwmM2tDqPnr5Xtwf8gaXAmJ7kjPSUzWvh6PkDKo19udMl&id=100068853744822) abbiamo infatti segnato ancora i portici di Via Zamboni con una rivendicazione chiara e semplice, che ci ha accompagnato nella pretesa di un presente diverso per tutto quest’anno: “Vogliamo una vita bella, senza confini, militarizzazione e sfruttamento”. Scritto a caratteri cubitali tra i civici 36 e 38, a ricordare a chiunque quale sia il desiderio dellə giovani della città, dopo tre anni di sindemia e una crisi bellica, econimica e sociale in corso, di cui non si vede la fine.  
Non ci stupisce tuttavia che, anche in un momento del genere, la priorità su tutto ce l’abbia la cancellazione di questo graffito, nel nome del decoro, nel nome della nomina dei portici patrimonio UNESCO, nel nome dell’eliminazione della nostra storia, a difesa invece di una storia che non ci contempla. Ma qual è, quindi,  la storia che sostengono di preservare nel momento in cui tentano di cancellare le tracce lasciate da chi la zona universitaria la vive, la costruisce, la anima e la rende, non un mero spazio di passaggio fatto di palazzi altrui, ma ne fa la propria casa, il proprio spazio di aggregazione, di socialità, di espressione, di crescita, di vita? Quella che si vuole difendere è una storia che esclude i nostri desideri, una storia scritta e raccontata dai vincitori, dai potenti, dai maschi bianchi etero cis e abili, attorno a cui è strutturata l’ossatura del sistema economico sociale che ad oggi governa, devasta, sfrutta e impoverisce il mondo.
E’ una storia monca, è una storia che taglia fuori ciò che costruisce e cambia il mondo dal basso. E’ una storia che esclude le lotte dellə oppressə, è una storia che esclude i conflitti, e che ne valorizza il portato soltanto nel momento in cui può far comodo all’immagine “punk” di Bologna, quella Bologna in cui unə turista può passeggiare e leggere in Piazza Verdi ’Storia Partigiana’, farcisi una foto e una volta tornatə a casa ricordarsi di quanto speciale fosse quella città dal sapore così squisitamente ribelle.
E’ una storia di cui non facciamo parte ed è da qui che nasce la nostra necessità di raccontarla, di raccontarci, di rivendicare quale sia il vero patrimonio collettivo di una zona, di una città e delle soggettività che vi abitano, vi soffrono, vi lottano.

A noi non servono riconoscimenti, non è quello che vogliamo, tuttavia siamo convintə che il valore delle mura di questa città stia proprio nei linguaggi, nei desideri, nelle pulsioni che vogliamo esprimere, che la forma sia un graffito, una scritta, un manifesto, uno spruzzo di vernice.
Vogliamo raccontare le nostre storie, quelle fatte di collettività che si organizzano, di corpi che vogliono abbattere la norma, che lo hanno fatto e che lo faranno, vogliamo raccontare le storie di chi sente la propria città non come un luogo di consumo, un luogo fatto di confini e militari, ma come la propria casa, come un insieme di relazioni ed espressioni, in cui a decretarne il valore non sono stoici omuncoli che da un ufficio decidono cosa è storia e arte e che cosa invece non lo è.

Noi esistiamo e la nostra storia è questa, inignorabile, incancellabile.

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