Il movimento #OccupyWallStreet. Nel cuore della crisi, l’embrione per una collettività sotto il segno dell’hashtag
Occupy Wall Street nasce il 17 settembre 2011, quando un migliaio di newyorkesi partono in corteo da Zuccotti Park, a Manhattan, cuore finanziario della città, gridando slogan contro l’accentramento della ricchezza e la speculazione dei colossi finanziari. Il primo corteo sfila sui marciapiedi, poiché negli Stati Uniti è vietato bloccare la circolazione stradale. Già il 24 settembre, però, la gente scende veramente in strada, creando disagio alla circolazione e bloccando la città. La repressione è fulminea: 80 arresti per intralcio al traffico. I manifestanti rispondono occupando il ponte di Brooklyn, la sera del 1 ottobre. L’iniziativa surriscalda gli animi della polizia, che pensa bene di eseguire l’assurdo numero di 700 arresti. Senza lasciarsi intimidire, il movimento rilancia le mobilitazioni del 5 e del 15 ottobre, mostrando una buona dose di determinazione. Il 5 ottobre i manifestanti, tra sindacalisti, studenti, disoccupati, pensionati, in ormai 15mila marciano verso Wall Street. Giunti in serata di fronte all’imponente sbarramento poliziesco posto a difesa dei palazzi della finanza, tentano più volte di oltrepassarlo, esercitando pressioni sugli agenti e resistendo a lungo alle manganellate e ai pestaggi. Nella scadenza transnazionale del 15 ottobre i manifestanti occupano per diverse ore Times Square; la polizia arresta 70 persone. Nella notte tra il 14 e il 15 novembre, dopo quasi due mesi di occupazione, viene brutalmente sgomberato il presidio di Zuccotti Park. È questo il momento in cui la repressione si fa sentire di più: oltre alla violenza sproporzionata della polizia sui manifestanti disarmati, vengono minacciati alcuni giornalisti e confiscati alcuni reportage sugli eventi di quelle ore. Le autorità giudiziarie hanno in seguito permesso la rioccupazione del parco, ma senza tende nè accampamenti. Nella mattinata del 17 novembre, anniversario dei due mesi di movimento, migliaia di persone si radunano per tentare di impedire l’apertura della Borsa di Wall Street: respinti dalla polizia, nel pomeriggio, i manifestanti si dividono in gruppi per andare a occupare alcune stazioni chiave della metropolitana in tutta la città. A fine giornata circa 30mila persone partono in corteo attraversando il ponte di Brooklyn. Il bilancio è di 250 arresti nell’arco di tutta la giornata. Ultima iniziativa del movimento è l’invito a Roberto Saviano, che il 19 novembre parla a Zuccotti Park di fronte a una nutrita folla, collegando la crisi finanziaria al controllo mafioso dell’economia mondiale.
Occupy Wall Street nasce sull’esempio dell’esperienza spagnola degli indignados, con cui condivide la pratica dell’occupazione permanente di un luogo fisico come punto di aggregazione, di socialità, di discussione e analisi della società, nonché come punto di partenza delle iniziative. Altra caratteristica in comune con la realtà spagnola è la mancanza di un’identità politica omogenea del movimento; esso comprende al suo interno personalità dalle tendenze più varie: socialisti e cattolici, pacifisti e veterani dell’esercito, democratici e repubblicani. Ma se la presenza di idee più o meno conservatrici impedisce da un lato di criminalizzare il movimento con etichette trite e ritrite come quella di ‘anti-americano’ o quella anche peggiore di ‘comunista’, dall’altro impedisce anche l’affermarsi del movimento come soggettività effettivamente conflittuale, che individui nella lotta di classe lo strumento per l’emancipazione e il riscatto dei ceti subalterni. Del resto la nascita di un simile movimento che sia forte ed incisivo sarebbe cosa assai complicata negli Stati Uniti, dove si sono da sempre imposti i dogmi del liberismo economico, della proprietà privata e del progresso inarrestabile. Nel concreto, le richieste di Occupy Wall Street riguardano una redistribuzione delle ricchezze, una maggior regolamentazione dell’economia e la fondazione di uno stato sociale che si proponga di garantire un sistema di previdenza più efficace. Queste richieste, sebbene non siano orientate alla nascita di un nuovo sistema, ma alla correzione di quello già esistente (e quindi di fatto al mantenimento del capitalismo), rappresentano, in America, un traguardo importante ed parzialmente inaspettato. Il merito principale del movimento è infatti l’aver delineato agli occhi delle persone le caratteristiche della crisi, individuandone i responsabili nei colossi finanziari e nelle sfrenate politiche liberiste dei governi, e l’aver iniziato a denunciare l’insostenibilità dei costi sociali della crisi, chiedendo che a pagarli sia la minoranza dei ricchi. Da qui lo slogan ‘we are 99%’. Slogan che è forse segno di un’ingenua presunzione (…). Ad ogni modo per la stragrande maggioranza degli americani le condizioni di vita sono realmente peggiorate nell’ultimo decennio, mentre un’esigua minoranza continua a detenere la gran parte della ricchezza, praticamente senza sentire gli effetti della crisi.
In ultima analisi è da considerare l’invito di Roberto Saviano a Zuccotti Park. Di Saviano gli studenti italiani ricorderanno le spiacevoli parole spese all’indirizzo dei ragazzi protagonisti della rivolta del 14 dicembre 2010. Scrittore giustizialista e difensore dell’ordine, Saviano ha tenuto un breve discorso al cospetto dei manifestanti di Occupy Wall Street in cui ha esternato la sua considerazione del movimento come difensore della legalità nel mondo finanziario, che sarebbe subordinato agli interessi mafiosi. Chiunque può comprendere da sé che la speculazione quotidiana sulla vita delle persone, ovvero l’esercizio dello strozzinaggio, è professione assai poco nobile, e che parlare di legalità in questo contesto altamente deregolamentato e incontrollabile appare piuttosto ridicolo e illusorio, per di più il giustizialismo costituzionalista nel quale Saviano vorrebbe inquadrare Occupy Wall Street e le altre soggettività di contestazione risulta decisamente fuori luogo e limitante per un movimento moltitudinario globale che non può accontentarsi di ricette vecchie e di sermoni preistorici, perchè il nodo della crisi, la lotta sul debito, non può giocarsi sulla contrapposizione della finanza buona contro quella cattiva, della politica sana contro quella corrotta, e via di questo passo nell’individuazione dei responsabili della crisi, per un semplice motivo, secondo noi: è il sistema in failure, la crisi è sistemica, affossata dentro un burrone dal quale non ci tirerà certo fuori né il riformismo presuntuoso né tantomeno – alle nostre latitudini – il Partito de La Repubblica, con al seguito tutto il suo nugolo di star da quattro soldi.
Analisi del Collettivo di Scienze Politiche di Torino, pubblicata sulla fanzine SciPol che verrà distribuita in università a partire dal dibattito di martedì 13 dicembre, nel quale verrà presentato ‘Eurocrisi, eurobond, lotta sul debito’ di e con Raffaele Sciortino.
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