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Unipa 2010-14: piano strategico o soluzione finale?

Tutto normale (!) nell’università retta dal mercato e soggetta a logiche di profitto, tutto anormale, in realtà, in un’università dove i bisogni degli studenti dovrebbero essere alla base delle logiche di governance del ministero e dei singoli atenei. Ma ripartendo dal dato che ad oggi sembra più sconfortante, cioè quello che vedrà solo un terzo degli studenti ”in gara” aver accesso all’università viene spontaneo domandarsi se, a tutt’oggi, è lecito parlare ancora di istruzione pubblica (?) oppure di sistematico processo di esclusione della totalità dei giovani dal mondo della formazione. Per l’Ateneo palermitano sono previsti solamente 9000 posti! Un vero e proprio processo di “desertificazione” si abbatterà sulle facoltà del capoluogo siciliano.

 

Sembrano ormai remoti i tempi in cui andare all’università significava fare una scelta oculata in base ai propri desideri e ai propri interessi senza l’incubo di essere tagliati fuori o essere costretti ad una migrazione forzata. Questo non significa per nulla essere nostalgici o rivendicare l’università del vecchio ordinamento ma mettere in evidenza tutte le contraddizioni del sistema universitario post riforme Berlinguer – Moratti – Gelmini.

Quella che doveva essere la lotta all’università “parcheggio”, come mera alternativa ad una disoccupazione galoppante si è rivelata essere, ancora una volta, strumento di selezione (di classe) e discriminazione a danno di quanti non possono permettersi di frequentare costosissime scuole di preparazione ai test (fino a un costo di oltre 4 mila euro) oppure, nel tentativo disperato di entrare in più corsi di laurea, di pagare 50 euro per iscriversi a più prove di ammissione. A fronte di questa situazione non regge nemmeno più la vecchia retorica della “meritocrazia” tanto sbandierata dalla compagine istituzionale bipartisan.

Dopo una prima rigida scrematura, quindi, gli studenti si troveranno di fronte ad altri insormontabili scogli da superare come il pagamento delle tasse universitarie, sempre in aumento, la riduzione delle borse di studio, l’insufficienza di alloggi a disposizione per gli studenti fuori sede, costretti a pagare affitti carissimi per vivere in case fatiscenti, stipati come sardine in scatola, la mancanza di servizi indispensabili per uno studente come le biblioteche, le mense e luoghi di aggregazione. Lo studente “in crisi” (o meglio della “crisi”) dovrà quindi impiegare il suo tempo a procacciarsi quel minimo di reddito (oppure indebitarsi a vita col prestito d’onore) che gli consenta di poter frequentare l’università, dividendosi tra lavori precari mal pagati in condizione di sfruttamento e ricattabilità e la rincorsa al credito per mantenere la borsa di studio e completare, così, l’anno accademico. Senza contare poi lo svolgimento del tirocinio formativo, obbligatorio per conseguire il tanto sospirato “pezzo di carta”, che garantisce “manodopera” gratuita e continuativa per aziende pubbliche e private. Alla fine del quinquennio (per i pochi che riusciranno a laurearsi nei tempi previsti dalla riforma) lo studente si ritroverà in mani con un titolo dequalificato e dequalificante, a causa di una didattica nozionistica e scadente, che nulla servirà se non ad aumentare le fila delle agenzie di lavoro interinale.

 

I cambiamenti all’interno dell’Università finora descritti, non sono il frutto di casualità o di anomalie di un sistema ormai in pieno default, ma sono il risultato di un disegno ben preciso, iniziato più di 10 anni fa col famoso Bologna Process, che aveva come obiettivo l’aziendalizzazione (con tanto di tagli di fondi pubblici destinati all’istruzione e alla ricerca) del mondo della formazione. Quest’ultimo, infatti, viene individuato dal capitalismo odierno come nuovo bacino di estrazione di plus valore, trasformando il lavoratore cognitivo in nuovo “soggetto” su cui capitalizzare lo sfruttamento ed estirpare profitto. Obiettivi, quelli del Bologna Process, recepiti sia sul piano nazionale dal triumvirato Berlinguer, Moratti, Gelmini e dalla Crui sia dalle politiche dei singoli atenei. Lo stesso Rettore Lagalla si è distinto per efficienza ideando un piano strategico quadriennale che facesse risollevare il posizionamento dell’ateneo palermitano dalle graduatorie più basse. Piano strategico che non fa che mettere in luce tutte le carenze di un ateneo “immeritevole” e sull’orlo del fallimento rischio di chiusura. Risalta subito agli occhi ad esempio il dato che vede un alto tassodi abbandono del corso tra il primo e secondo anno e l’incapacità, quindi,di riuscire a conseguire la laurea, oppure l’impossibilità per i ricercatori di poter svolgere ricerca nonostante la cospicua presenza di questi in ateneo, o ancora la penuria di fondi per istituire dottorati di ricerca. Le ricette promosse dal Magnifico per ovviare alla risoluzione di tutte queste problematiche sembrano risolversi in due e tre misure drastiche ma efficaci. Come sì è già detto eliminare il numero degli iscritti mettendo il numero chiuso in ogni facoltà, ancora meglio se si eliminano i fuori corso cancellandogli tutte le materie e rispedendoli a casa con il ben servito. Per i ricercatori si rinvia alla capacità, quanto mai trascendente e aleatoria, di trovare fondi (europei/regionali ?) nella speranza di captare la benevolenza di qualche ente caritatevole oppure aspettare la donazione di qualche privato in cerca di commesse e appalti dall’università. Se questa è la gestione dell’ateneo da parte di Lagalla & Co. non c’è da sperare nemmeno per la città di Palermo, giù sufficientemente martoriata dalla gestione Cammarata, dopo l’annuncio della candidatura a sindaco da parte del Magnifico.

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