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“Mimmo o kurdo” e l’attacco al modello Riace

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Partendo dalle cronache degli ultimi giorni [l’avviso di garanzia al sindaco di Riace NdR] iniziamo ad indagare il sistema dell’accoglienza in Calabria partendo dall’ ”anomalia” Riace. Analisi che non ha pretesa di essere esaustiva ma che mira a fare emergere alcuni spunti di analisi sui quali costruire una riflessione più accurata e complessiva. Buona lettura…      

 

Un modelle nato “Storto”. 

Ci eravamo già occupati di Riace in una intervista (qui) al sindaco Mimmo Lucano; una discussione fatta in tempi non sospetti, in cui “Mimmo o kurdo” oltre a fare riferimento agli attacchi che stava ricevendo, iniziava a tirare fuori i limiti tecnici dei progetti di accoglienza, evidenziandone la profonda involuzione, dovuta a un repentino processo di depoliticizzazione. 
Ne ritorniamo a parlare ora perché il “modello Riace” in questi giorni è nuovamente sotto attacco, grazie a un avviso di grazia spiccato dalla procura di Locri nei confronti di Mimmo e del presidente dell’associazione che gestisce il progetto SPRAR nel piccolo comune Calabrese. Ma le accuse di abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata, che hanno avuto come risultato una perquisizione della guardia di finanza negli uffici del comune, sono solo la parte immediatamente visibile di una lunga guerra condotta contro un modello di accoglienza che ancora non si è piegato alle logiche della governance.
È una storia nata “storta” quella di Riace, non inquadrabile nella retorica caritatevole/assistenziale da pio cattolicesimo. Questa storia ha inizio nel 1998, quando i primi migranti iniziano a sbarcare sulle spiagge di Riace; erano un gruppo di rifugiati kurdi, molti dei quali militanti del PKK, ed è a partire da queste origini che l’esperienza porta con sé una carica di rottura conflittuale difficile da inquadrare in un’ottica di compatibilità sistemica.
A Riace si è iniziato ad “accogliere” in tempi in cui i migrati non «rendevano più del traffico di cocaina» e lo si è sempre fatto con lo spirito della solidarietà internazionale, conflittuale più che assistenziale. Le prime case, allora abbandonate, furono messe a disposizione gratuitamente da calabresi che, per conoscenza diretta, sapevano bene cosa significasse emigrare. Se a questo si aggiunge che a coordinare questa forma spontanea di mutuo aiuto c’era un gruppo di vecchi comunisti locali, e non qualche prete dalla faccia pulita facilmente spendibile per le riviste patinate, si può capire quanto il modello sia stato atipico fin dalla sua nascita. 
Un progetto nato con modalità atipiche così come è atipico “Mimmo o kurdo”, un sindaco che riesce ad affermare a chiare lettere che “la giustizia sociale è più importante della legalità”. Un’affermazione, che in una terra intossicata dal legalitarismo anti-ndrangheta, risuona come una dichiarazione di guerra tanto alla burocrazia ministeriale che gestiste i progetti di accoglienza, quanto a tutti quei soggetti che sulla retorica legalitaria e sulla gestione dei progetti hanno costruito le loro fortune. 

La Calabria e il welfare 2.0 dell’inclusione differenziale

Per focalizzare meglio quello che sta avvenendo a Riace è necessario però inquadrare il fenomeno dei progetti di gestione dei flussi migratori all’interno del territorio calabrese. 
La Calabria, in proporzione al numero di abitanti, è la regione italiana che ospita il più alto numero di migranti nelle varie strutture di accoglienza ministeriale (SPRAR, CAS, CPA, ecc.). Questo primato è stato possibile per un semplice motivo: l’enorme circuito economico prodotto dal buisness dell’accoglienza. In una regione in cui la disoccupazione giovanile e al 60% e l’emigrazione nazionale ed estera ha raggiunto nuovamente percentuali da anni ’50, anche un minuscolo progetto di ospitalità all’interno di un piccolo pesino rappresenta una boccata di ossigeno vitale. È in questa realtà che enormi progetti di sfruttamento del flusso migratorio, come il CARA di Isola Capo Rizzuto (gestito secondo una recente inchiesta della DDA   direttamente dalla ‘ndrina locale) o i vari CAS, nati come funghi riciclando strutture alberghiere ormai al collasso, si mescolano ai più piccoli progetti SPRAR allocati spesso in paesini rurali prossimi allo spopolamento. Un vero proprio sistema di welfare dell’accoglienza o per meglio dire: un welfare 2.0 dell’inclusione differenziale
Sistema in cui a ingrassare sono in pochi e a farci le spese in molti: in primo luogo i migranti che sono costretti, per non perdere la possibilità di avere il permesso di soggiorno, o a vivere in pessime condizioni igienico-sanitarie (quando ospitati nei CAS/CARA) o a essere rinchiusi nella comoda narrazione assistenziale caritatevole (se ospiti di SPRAR). Ma i migranti non sono i soli a pagarne le spese, infatti, dietro al collaudato meccanismo delle finte cooperative anche gli operatori e le operatrici che lavorano all’interno dei progetti sono costretti a farlo nella più totale assenza di garanzie. Persone a cui è richiesta una elevata competenza linguistico/relazionale con anni di formazione alle spalle nei settori più disparati (scienze politiche o sociali, cooperazione internazionale, mediazione culturale, psicologia) sono costrette a lavorare, con il ricatto della disoccupazione, con contratti a progetto senza ferie o malattie per pochi euro al mese. Un doppio ricatto in cui a perdere sono tanto i migranti quanto gli operatori e le operatrici, e gli unici a vincere sono i CDA delle cooperative nelle cui tasche rimane il grosso dei famosi 35€ giornalieri spesi per l’accoglienza. Ricatto che produce, come effetto immediato e per nulla secondario, anche l’incapacità di (ri)conoscersi tra operatori e migranti come appartenenti al medesimo segmento di precariato sociale
Se, da un lato, lo Stato ci guadagna in termini di tenuta sistemica per questa mancanza di riconoscimento che potrebbe essere altrimenti conflittuale, dall’altro evita lo spopolamento dei centri rurali calabresi drenandovi le uniche risorse concesse della UE. Infatti, la facilità con la quale nascono le strutture di accoglienza è dovuta anche al fatto che l’UE non conteggia le risorse che l’Italia spende per la gestione della migrazione nel rapporto deficit/pil, permettendogli di “investire” in questo settore tutto il denaro che vuole.           
Un meccanismo complesso, fatto di ingranaggi precisi un cui ogni singolo pezzo deve fare il proprio lavoro, altrimenti c’è il rischio serio che inceppandosi produca un’esplosione conflittuale. Gli SPRAR non devono più fare una azione politica denunciando cosa sia il sistema d’accoglienza, altrimenti chi ci lavora dentro rischia di perdere anche quel minimo reddito che gli permette la sussistenza. Mentre i migranti devono stare zitti e buoni pena l’espulsione dallo stesso sistema d’accoglienza, perdendo anche la possibilità di avere i documenti. Ognuno deve recitare il suo ruolo senza mescolarsi con l’altro o salta tutto!    

Riace è un ingranaggio impazzito 

In questo quadro è intollerabile che esista una esperienza come quella di Riace, troppo scomoda, troppo conflittuale, troppo ostinatamente “politica”. Qui anche il meccanismo delle cooperative sembra che non funzionare come dovrebbe: troppi diritti concessi agli operatori e troppa mescolanza tra operatori, migranti e abitanti; sembrerebbe addirittura che qualche migrante lavori per i progetti. Non è tollerabile tutta questa contaminazione. Riace a gli occhi del ministero degli interni non è altro che un ingranaggio impazzito che va rimosso il prima possibile dal sistema.  
Anche lo stesso Lucano non si presta bene alla narrazione di comodo che la sinistra fa dell’accoglienza, un sindaco che cita Öcalan invece di un prete che cita papa Francesco non è molto presentabile, un esponente delle istituzioni che distrugge la retorica della legalità parlando di giustizia sociale non fa fare bella figura a nessuno, un calabrese che parla contro la ‘ndrangheta con un forte accento meridionale non ha la stessa funzione tranquillizzante/colonizzante di un prete che dice magari le stesse ma con un rotondo accento nordico.
Per questo motivo la procura di Locri non ha trovato niente di meglio da fare (sic!) che inviare i finanzieri a Riace per verificare che tutto fosse in ordine e che la legalità fosse rispettata.
Dal canto suo “Mimmo o Kurdo” ha fatto quello che gli riesce meglio: resistere. Venerdì, in una assemblea pubblica nell’anfiteatro del comune, ha chiamato a raccolta nel giro di 5 giorni un numero considerevole di persone. Una assemblea convocata non per produrre una difesa ad personam, ma per proteggere un modello potenzialmente sovversivo.
Il modello Riace per ora tiene, e non tanto la pletora di soggetti istituzionali che stanno provando a salire sul carro del vincitore, ma per la capacità di rompere quelle narrazioni tossiche che vedono il conflitto come il peggiore dei mali.
Non è facile capire quanto a lungo questo modello sarà in grado di resistere, ma già oggi una cosa sembra chiara Riace e il suo sindaco sono riusciti a scavare dei solchi profondi tra chi vede i migranti come unbisnes più o meno etico, e chi invece riconosce in loro una possibilità di rottura di un ricatto sistemico. 

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pubblicato il in Intersezionalitàdi redazioneTag correlati:

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