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Argentina: il miracolo della vita nelle periferie urbane

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Raúl Zibechi

“Quello che abbiamo appreso per anni nella scoletta di educazione popolare transumante ci ha nutriti per affrontare questa situazione”, afferma Mari, del quartiere 12 de Julio nella periferica di Córdoba. Un quartiere occupato nel quale vivono 300 famiglie, che hanno aperto le strade e hanno messo la luce e l’acqua lavorando collettivamente. Funzionano in assemblea, stanno installando mense comunitarie e orti familiari con l’appoggio delle abitanti più impegnate.

La Transumante, formalmente Università Transumante, sorse nel decennio del 1990, “in un contesto nel quale la gente era diffidente dei governi e della politica”, spiega Mariana. “Siamo usciti a transumare con il Quirquincho -l’autobus con il quale fecero vasti giri- in cerca di questo altro paese per incontrarci con il basso profondo, per apprendere altri modi di fare politica”.

Per anni la Transumante percorse i piccoli paesi che appena figurano nelle mappe e sono invisibili alla politica mediatica. “La chiamiamo pedagogia intimista, che consiste nell’ascoltare i gruppi locali. Ci incontriamo con molto fatalismo e molta tranquillità e lì ci siamo resi conto della persistenza del virus della dittatura militare attraverso la paura”.

Piter sostiene che “la prima transumanza fu di uscire con un progetto di estensione nell’Università di San Luis, migrare dall’istituzionale all’intemperie, perché dentro le istituzioni tutto era marcio e il pensiero critico era molto conformista”.

Aggiunge alcune parole a questo concetto di pedagogia intimista: “Non siamo usciti a cercare una nuova teoria politica razionale che spieghi quello che stava succedendo, ma come la gente stava sentendo la congiuntura e come le stava resistendo”.

Mariana spiega che per anni si dedicarono a “scavare e a girare in basso”, ma nel 2008 fecero un rivolgimento: militavano in organizzazioni composte da persone di classe media, in generale universitarie che mettevano le proprie speranze nelle istituzioni che la Transumante rifiutava. “Lì decidemmo di lavorare nei territori dei settori popolari, affinché loro stessi dirigessero le proprie organizzazioni”.

Crearono un nuovo progetto: la Scuola di Formazione di Educatori dei Territori Popolari o, semplicemente, scoletta. Le ragioni le pone Piter: “La pedagogia delle e degli oppressi stava venendo catturata dalla classe media e la creazione della scoletta ha a che vedere con lo smettere di insegnare alla gente e incominciare a condividere con le compagne dei quartieri le modalità di organizzazione e di educazione”. La rete ha tre principi: autonomia, autogestione e orizzontalità che, dice Mariana, “sono pieni di contraddizioni”.

Varie abitanti del quartiere 12 de Julio partecipano alla scoletta, come Ana che si dedica all’area della salute e dell’autocura. “Lavoriamo con erbe medicinali e ci articoliamo con il dispensario”, si ascolta la voce rotta per la pessima connessione che hanno con internet.

Gabi partecipa all’area dell’educazione. “Tre volte alla settimana lavoriamo con bambini e bambine per aiutarli nei compiti scolastici e diamo anche un aiuto nel trovare sementi per gli orti”. Coltivano alimenti come zucche per le mense comunitarie e piante medicinali per trattare le malattie croniche, che si moltiplicano con la povertà.

A Mari la conobbi vari anni fa nella scoletta: “Le pentole le riempiamo con quello che ha nella propria casa ciascun abitante. Uno porta una carota, un’altra un pacchetto di fedelini e l’altra una o due cipolle. Abbiamo alcune donazioni della chiesa e di professionisti amici della Transumante. Diciamo alla gente di aprire più mense, una per isolato se si può, perché dallo stato non giunge nulla”.

L’Incontro delle Organizzazioni, una corrente inspirata al movimento piquetero (disoccupati) dopo l’insurrezione del dicembre 2001, apporta alimenti frutto delle loro mobilitazioni per far pressione sullo stato. “Non vogliamo donazioni di gente che ci mette delle condizioni, come alcune chiese che ci portano cibo ma vogliono che mettiamo le bandiere della chiesa”.

Nello spazio La Soñada, nel quartiere Autódromo, Yaqui, anche lui si è formato nella scoletta, sostiene che in questi giorni il principale obiettivo dell’organizzazione del quartiere è di stare insieme ai bambini e alle bambine. Hanno creato anche una mensa comunitaria per alimentare i nonni e le gestanti. Nella scoletta hanno dibattuto della centralità dell’autocura.

“La pandemia ci ha mostrato quello che siamo capaci di fare, tutto quello che abbiamo appreso durante gli anni di formazione lo stiamo mettendo in pratica e ci ha resi molto più forti”, pensa Mari. Yaqui aggiunge che nei quartieri c’è più organizzazione più capacità di fare di prima della quarantena: “Appaiono mani solidali di gente che non conosciamo, c’è un odorino di solidarietà”.

Impossibile non menzionare la violenza di genere. “Nel quartiere ci sono stati incendi e donne ferite, ma tutto il quartiere si è unito nel dare una mano a queste famiglie”, conclude Ana. Non aspettano nulla dallo stato, né alimenti né giustizia. “Si nota la necessità della gente di stare insieme”.

In breve sintesi, questa è la storia di dignità di un collettivo di educatori popolari che hanno lasciato le aule per condividere con riciclatori dell’immondizia e quelli che fanno lavoretti, per rendere possibile che quelli più in basso dirigano le proprie organizzazioni, senza “capi” provenienti dalle classi medie istruite.

* * *

“Una bambina o un bambino possono passare tutta la loro vita, fino ad essere anziani, in spazi autogestiti dalle abitanti e dagli abitanti che sono quelli che portano avanti questi compiti”, racconta con parsimonia padre Carlos Olivero, della Villa 21-24 di Barracas, nella città di Buenos Aires.

Nella maggiore “villa miseria” della città, padre Charly, come lo sconoscono gli abitanti, vive e lavora dal 2002 nella Parrocchia di Caacupé. La chiesa fu costruita dagli abitanti con un lavoro collettivo: mentre loro facevano la mescola di calce e collocavano i mattoni, le donne preparavano il pranzo e sostenevano il lavoro comunitario. Il nome lo misero gli emigrati paraguaiani, dal nome della vergine più emblematica del loro paese.

Nella villa funziona una impressionante rete di famiglie, racconta Charly: per nonni, gestanti e nati recentemente, giardini d’infanzia, per persone trans, per pazienti di diverse malattie come l’HIV e tubercolosi, per consumatori di droghe e per accompagnare persone private della libertà quando escono dalla prigione.

Contano anche su una scuola professionale dove i giovani studiano, circa mille ogni quadrimestre, una scuola primaria e una secondaria. Al momento di enumerare i lavori nella villa, è impossibile non perdersi. Charly somma spazi e compiti. “Il Hogar de Cristo (Casa di Cristo) è centrato nell’assistenza dei più vulnerabili, persone di strada, che consumano, liberati. Abbiamo una fattoria per donne con i loro figli e cooperative per quando gli ex consumatori si reinseriscono”.

Visitano più di 300 persone sottoposte al sistema penitenziario, ma con una qualità che li differenzia da altri progetti: “Quelli che vanno a visitarli sono compagni che sono stati privati della libertà e che pertanto sanno di cosa si tratta. Li accompagnano affinché abbiano la sicurezza che quando usciranno in libertà avranno chi li appoggerà”.

Continuiamo a sommare: gli esploratori sono circa 2.500, per il Hogar de Cristo passano circa mille persone e accudiscono nove mense dove si reca una media di 200 persone ogni giorno. “Impossibile quantificare”, si lamenta Charly con un sorriso, di fronte all’insistenza.

“La cosa importante è che le abitanti e gli abitanti siano quelli che portano avanti tutti gli spazi. Per questo ti dico che una bambina o un bambino può passare tutta la sua vita in spazi autogestiti, da prima di nascere fino a che sono nonne. L’idea è che ci siano proposte solide per ciascun gruppo del quartiere, ma è il quartiere quello che li assiste”.

Padre Charly afferma che stanno costruendo qualcosa di “differente dal sistema”. Appartiene al movimento dei “preti delle villas”, ispirato all’impegno con i poveri che portò padre Carlos Mugica ad impegnarsi con gli abitanti della villa 31 (a Retiro, molto vicina al porto), fatto che gli costò la vita venendo assassinato nel 1974 dalla Triple A. I preti delle villas sostengono di andare nelle villas ad apprendere. Per questo Charly afferma che “più che costruire un mondo diverso veniamo a collegarci con quello che c’è già, perché il nostro quartiere è di immigrati, di gente che è venuta perché non aveva accesso alla sanità e al lavoro”.

Contro la stigmatizzazione dei media -che non smettono di menzionare violenza, droghe e delinquenza- sostiene che “la villa 21 è il miglior quartiere di Buenos Aires, per la solidarietà, per il livello di organizzazione”. Durante la pandemia hanno verificato la scarsa nozione che hanno i governi, anche quelli progressisti, di ciò che succede nelle villas.

“Quello che fa la pandemia è far emergere tutto quello che non era risolto, la precarietà del lavoro, la mancanza d’acqua, l’impossibilità di risparmiare… e ora emergono tutti insieme i problemi”. Nella villa non solo c’era povertà e lavoro informale, c’erano tubercolosi, il dengue, l’HIV, le persone che vivono in strada e quelle private della libertà.

Quando è piombata la pandemia, si sono moltiplicate le mense, la consegna di alimenti alle famiglie e hanno messo tutti i loro spazi al servizio del quartiere. “Perché i governi vogliono risparmiare sul cibo e le pratiche burocratiche sono un disastro al punto che ora nessuno vuole venderlo”, si indigna Charly.

Lavora insieme ai movimenti sociali del quartiere, a coloro che considera imprescindibili. Con i militanti sociali hanno fatto un censimento di persone vulnerabili e di infermiere e hanno installato dei posti di vaccinazione, distribuiti nei 63 ettari della villa 21-24. “Qui le persone non possono isolarsi perché vivono ammucchiate, dormono fino a sette in un medesimo letto”.

Ci ricorda che nel quartiere non entrano le ambulanze, per “sicurezza”. I protocolli ufficiali, pertanto, non hanno la minima utilità nell’estrema povertà. Per questo le organizzazioni sociali hanno superato le differenze per assistere il quartiere, dice Charly.

“Vedo uno scenario abbastanza difficile. In tempi di guerra accettiamo un’economia di guerra, ma quando non c’è guerra le necessità esploderanno. Vogliamo rispondere all’urgenza, ma che questa risposta lasci una capacità installata nel quartiere”. Insomma, organizzazione.

Padre Carlos Olivero si congeda con una frase quasi biblica, frutto della sua esperienza di vita: “Con lo stato non c’è se la fa, perché non conosce la realtà dei quartieri. Quello che verrà deve essere con l’organizzazione popolare. Questo significa che le compagne e i compagni non occupino incarichi, per non abbassare le braccia”.

29 maggio 2020

Desinformémonos

traduzione a cura di Comitato Carlos Fonseca

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