Egitto: Uno sciopero da milioni di no!
Anche oggi tutta l’attenzione è orientata sul Cairo anche a causa del blocco totale del flusso delle informazioni che potrebbero spiegare al mondo cosa sta succedendo altrove. Ieri mattina è stata staccata la spina anche all’ISP Noor, sui cui server veniva ospitata la Borsa egiziana e su cui si inseriva la residua comunicazione internet proveniente dal paese africano.
E’ stata inficiata anche l’utilità di SpeakToTweet, un servizio lanciato in fretta e furia sempre nella giornata di ieri da Google che permetteva la ripubblicazione su Twitter del contenuto di brevi chiamate telefoniche tramite riconoscimento vocale. Un’opzione sempre meno praticabile in un momento in cui le dinamiche di piazza rendono difficile l’accesso alle uniche connessioni telefoniche apparentemente funzionanti, quelle a linea fissa. Avere un buon numero di fonti certe dalle altre città è molto difficile ma dalle informazioni che possediamo possiamo ritenere che altrove il movimento si è scontrato e si sta scontrando ripetutamente con la polizia riuscendo a far tremare a volte i nodi nazionali del potere statale tramite occupazioni di edifici pubblici, saccheggi, e incendi di posti di polizia e commissariati. C’è chi parla di Suez come della Sidi Bouzid (importante epicentro della rivoluzione tunisina) dell’Egitto, e ancora Alessandria, Ismailia e tante altre città dove studenti, disoccupati, e giovani proletari hanno compattato l’avanguardia sociale della rivolta aprendo la lotta contro la crisi ed il regime. Una narrazione a venire che corre parallela agli eventi di piazza elTahrir ripresa dall’alto dalle telecamere di tutto il mondo e che difficilmente può restituire la complessità, le stratificazioni e le sfumature di un movimento di massa e vasto come quello che si sta sviluppando in tutto l’Egitto.
Seguendo il mainstream si rischia infatti di pensare ad una piazza elTahrir eternamente in attesa di qualche leader o portavoce dell’opposizione ufficiale per un comizio quando a differenza sembra attendere ben altro: il momento propizio per dare una forte e radicale spallata al regime.
Perchè di questo si tratta, mandare a casa tutti e non solo Moubarak, ma il sistema intero che ha garantito tramite repressione e dispotismo, che a pagare la crisi e a non godere delle ricchezze del paese fossero stati sempre e solo quei tanti che oggi sono in piazza. Contro il caro vita e per un salario garantito, si legge nella convocazione della mobilitazione del 25 gennaio, e le interviste e gli slogan ancora oggi ci danno il segno di quanto la contestazione politica al regime e il tentativo del suo rovesciamento siano strettamente legata alla necessità di redistribuire le ricchezze tra la massa degli espropriati.
Espropriati di diritti civili quanto di futuro, è la vitaccia, “la mal vie” contro cui si sono rivoltati i giovani algerini nei primi giorni di gennaio e contro cui la rivoluzione tunisina continua a lavorare. Da qui l’odio per Moubarak, il suo sistema di potere ormai delegittimato e messo in crisi dal movimento. E da qui anche la necessità per l’apparato istituzionale di correre ai ripari per non crollare completamente anche attraverso l’uso di un esercito “neutrale” che ieri ha dichiarato ufficialmente la legittimità della protesta popolare assicurando l’Egitto che non userà le armi per contenere le piazze. Struttura istituzionale terminale per garantire transizioni possibili e continuità dello stato, l’esercito gioca un ruolo ambivalente anche per la composizione delle basse gerarchie coposte in maggioranza da giovani proletari che magari se non avessero avuto la divisa oggi avrebbero tenuto un sasso in mano. L’uso ambivalente dell’esercito potrebbe giocare anche un brutto scherzo a chi punta sulle forze armate per garantire una “transizione ordinata” degli alti poteri in Egitto. Come anche ieri si è augurata la Clinton, che in fretta e furia ha radunato più di 100 diplomatici e ambasciatori a stelle e strisce per “fare il punto” sulla situazione egiziana e sull’area mediterranea.
Senza accelerare contro Moubarak e ben vedendosi di dare l’ok ad ElBaradei (che più di una volta ha funzionato da decisiva spina nel fianco della politica estera della Casa Bianca) la Clinton ha parlato di transizione ordinata, formula che poi è stata in un certo senso ripresa dagli alti ufficiali dell’esercito egiziano. Allo stesso tempo l’elites della Fortezza Europa per l’ennesima volta non riesce a raggiungere una posizione unitaria sulle crisi internazionali.
I comunicati che l’Unione Europea sta diramando sono ipocritamente neutrali, parlano della necessità di dialogo democratico tra piazza e regime lasciando sventolare la bandiera della democrazia e dei diritti umani solo sui carri armati in Afganistan ed in Iraq. Nei fatti la Germania, già incline e togliere ogni sostegno a Moubarak, non l’ha spuntata con il no della Francia e della Gran Bretagna ben attente a non sbilanciarsi troppo ma celando di volere ancora il vecchio despota saldo sulla poltrona.
L’Italia allineata sulla posizione di questi ultimi brilla per originalità in politica estera solo per aver messo il veto alla sottrazione del visto per l’ingresso nell’Unione Europea per Ben Ali e moglie. Frattini garantisce lo shopping a Parigi o a Roma per l’ex-tiranno di Cartagine conquistandosi l’applauso di Gheddafi che il governo Berlusconi non può proprio sottrarsi dal compiacere. Israele ben più pragmatica dell’Unione Europea ha mosso già le truppe e sembra prepararsi al peggio visto che non è bastata la direttiva alla sua diplomazia che avrebbe dovuto pressare i governi occidentali per far tenere la fiducia su Moubarak. In soccorso alla disinformazione di parte del mainstream occidentale e filo sionista, che non perde occasione per paragonare gli eventi egiziani alla rivoluzione iraniana, arriva l’Iran stesso, che legge nella rivolta egiziana l’inizio di una possibile svolta islamista nel medioriente e appoggia pubblicamente gli insorti del Cairo.
Insomma all’appello non sembra mancare più nessuno e ormai tra cancellerie e media ufficiali si fa un gran chiasso non curanti della storica irascibilità dei rivoluzionari e dei rivoltosi che ci fa supporre, con una certa consapevolezza e partecipazione, che una volta tolto il bavaglio della censura anche al resto dell’Egitto potrebbe suonare come un boato:“que se vayan todos!”
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