Post-verità. Dov’è la novità?
L’esito inaspettato di tante scadenze elettorali o referendarie del 2016 (Brexit, elezioni Usa, referendum italiano) deve aver innervosito e non poco coloro i quali pensavano che la resa storica della sinistra,anche socialdemocratica, all’ideologia neoliberista avesse spalancato per decenni le porte del Paradiso ai padroni e ai padroncini dei sistemi di governo delle democrazie occidentali. Un Paradiso che all’insegna delle parole d’ordine austerità e responsabilità avrebbe potuto operare incontrastato e incontestato sui cittadini-utenti-sudditi del nuovo millennio.
Si sperava in questo modo non solo di placare qualunque tipo di insorgenza di piazza (e dove non riusciva la svendita liberale della sinistra arrivavano i manganelli e la repressione in generale), ma anche di realizzare un obiettivo ancora più profondo: l’accettazione introiettata di ogni decisione dell’autorità al comando, la rinuncia totale all’espressione di dissenso. Ma la storia non aveva ancora intenzione di finire…
WikiLeaks ha messo a segno i primi colpi contro la cortina di fumo assoluta che circondava l’operato dei governi, e i vari Assange, Manning, Snowden ed Hammond stanno pagando a caro prezzo la rottura storica di cui si sono fatti portavoce. Il 2011 e le insorgenze in Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Libia, Siria hanno invece segnato la rottura del primo obiettivo, portando con sè la necessità per le democrazie occidentali di appoggiare anche i peggiori tagliagole nazisti come fatto in Medio Oriente con il sedicente Stato Islamico per reprimere il potenziale rivoluzionario innescatosi dall’immolazione di Bouazizi.
Negli ultimi mesi le scadenze elettorali succitate hanno invece reso possibile per i cittadini dare dei segnali forti alle élite politiche tradizionali, aldilà del fatto che condividessero totalmente i programmi dei candidati o che ponessero reali speranze in un cambiamento decisivo. Importante era dare un segno di discontinuità, quantomeno testimoniando un mancato appoggio a questa stabilità.
Tali voti di rifiuto e di aperta ostilità alle élite della stabilità neoliberale, della continuità dello sfruttamento, sono stati senza dubbio ottenuti grazie anche alla capacità della Rete; alla sua capacità di amplificare e mettere ulteriormente in circolazione espressioni pre-esistenti di dissenso allo status quo, identificato con l’operato di quelle stesse élite. Le quali, andate nel panico per quanto avvenuto, cercano di reagire alzando ulteriormente la posta.
La cronaca degli ultimi giorni ci racconta infatti di un’enorme enfasi – locale e internazionale – posta sulla lotta alle cosiddette fake news, ci narra di battaglie da costruire intorno al contrasto della “post-verità”. Sarebbero state le bufale circolate in Rete a portare al successo la Brexit o Trump, distorcendo la volontà popolare che in realtà se ben informata sarebbe ovviamente d’accordo con le politiche delle classi dominanti.
Spariscono d’incanto disoccupazione, immiserimento incalzante, sfruttamento sul (poco) lavoro esistente, sfratti, guerra tra poveri: il problema sono le bufale sulle scie chimiche o sui massoni che governano il mondo, che per quanto obiettivamente folli e inaccettabili sono utilizzate in questo giochino per rendere ugualmente folli e inaccettabili anche espressioni di dissenso genuine contro lo status quo.
Il problema è che i tanti soloni che probabilmente non sono in grado neanche di accendere il PC senza l’aiuto di qualche assistente tecnico sfruttato e sottopagato (e nonostante questo legiferano sulla Rete) non riescono a comprendere che la libertà di espressione in Rete non è un fattore discrezionale. A meno di volerla limitare, implementando un sistema di controllo preventivo, che vieti parole o espressioni particolari. Tale opzione si configura come un’enorme violazione dei diritti umani, e non a caso nel corso degli ultimi anni sono stati proprio i regimi definiti ovunque come i più autoritari a procedere in questa direzione. Fra gli esempi possiamo mettere l’Egitto di Mubarak, la Turchia di Erdogan, per arrivare al celeberrimo caso cinese del Great Firewall. Fa sorridere che mentre le autorità americane attaccano la Russia per l’intromissione dei suoi hacker nelle elezioni 2016, contemporaneamente avanzino in un clamoroso tentativo di regolazione dell’informazione in Rete che con la scusa della lotta alle bufale parla semplicemente di censura.
Quel tentativo di regolazione è finalizzato ad un obiettivo ben più importante, ovvero la rottura della net neutrality, capaci di creare una Rete a più velocità e dove i contenuti non siano accessibili/pubblicabili allo stesso modo per e da tutti, instaurando accessi differenziati e nuovi enormi profitti ai gestori dei servizi e un’enorme margine di manovra decisionale alle autorità politiche. Alla faccia della democrazia e della (presunta) libertà della Rete! Ma del resto, sono le stesse autorità che detengono Chelsea Manning dopo averla torturata ripetutamente, nel completo silenzio degli alleati occidentali che temono come la peste WikiLeaks e poi si riempiono la bocca di “verità” da salvaguardare dai populismo, incarcerando e reprimendo chi un minimo di verità prova a farla emergere.
Ovviamente, nella solita tendenza tutta italiana di importare il peggio di ciò che arriva dagli States, in un’intervista al Financial Times il presidente dell’antitrust nostrana Pitruzzella ha parlato di post-verità come motore dell’ascesa del populismo e dell’attacco alle democrazie del nostro paese e di tutta Europa. Inoltre, andrebbero previsti organismi capaci di rimuovere le notizie false e assicurare sanzioni a chi le pubblica. Il Pitruzzella, o ubriaco o non avendo probabilmente ancoradigerito la sconfitta referendaria, rimuovendo anche qui le cause strutturali non si accorge della portata delle sue parole: quello che invoca è un controllo de facto del dissenso, si nega ogni tipo di opinione popolare affogandola nel mare magnum del “mondo delle bufale” per delegittimare ogni sua portata destabilizzante. E come scrive bene Fabio Chiusi in questo articolo, anche la Boldrini e Orlando si accodano a questa visione sul tema..
Tornando a Pitruzzella, è strepitoso soprattutto il passaggio per il quale questi organismi dovrebbero essere coordinati da Bruxelles. L’Unione Europea, al centro di attacchi decisamente comprensibili di ostilità rispetto alle sue politiche, dovrebbe diventare il controllore dei flussi informativi della Rete. Quantomeno un conflitto d’interessi, senza dubbio un clamoroso cortocircuito nella stessa democrazia che si dovrebbe proteggere nelle intenzioni del garante Antitrust. Di fatto l’unica possibilità per mettere in pratica questa teoria sarebbe come detto un sistema di filtri preventivi sul modello cinese o iraniano: è questa l’idea di democrazia delle “nostre” istituzioni? E cosa ne sarà di tutti i contenuti prodotti da portali o pagine in aperto dissenso con la gestione corrente della società?
Da Pitruzzella vorremmo sapere chi dovrebbe garantire quella che lui definisce “l’informazione corretta” (che brivido a leggere questa frase dal sapore goebbelsiano/orwelliano). Chi sarebbero questi esperti capaci di discernere il falso dal vero, abili e infallibili nell’emissione del criterio di verità e gestori unici dello scettro della conoscenza e dell’informazione: i redattori del Tg1? I giornalisti dell’Unità o di Repubblica? O, per par condicio, quelli de Il Giornale? O i sondaggisti di Libero?
E’ stato proprio il divenire di questi media simbolo di una continua guerra a bassa intensità di bufale ed informazione selettivamente interessata che porta al fatto che giornali e televisioni siano sempre più in crisi non tanto quanto a letture ad ascolti, quanto nella loro capacità di divenire produttori di discorso. Anzi, probabilmente riescono a canalizzare sempre più persone nel campo opposto a quello che vorrebbe essere indicato, dato che la realtà che riportano nelle loro mediocri narrazioni è inversamente proporzionale al vissuto reale della popolazione.
La realtà è che le fake news non portano con sé alcuna novità: sono già tra noi, sono presenti pienamente nelle nostre vite da anni. Sono quelle dell’economia che si sta riprendendo, dello spread che si abbassa grazie alle riforme e alla stabilità, del Jobs Act che porta lavoro, dei voucher che servono a far emergere il lavoro nero, della Buona Scuola che mette al pari gli studenti con l’attuale sviluppo della tecnologia e del mondo del lavoro, dei risparmiatori tutelati dal crack finanziario, solo per stare alle nostre latitudini.
Sono i randelli di chi ritiene informazione corretta quella che difende e si mette al servizio di un interesse generale – che è in realtà l’interesse particolare di chi detiene la stragrande maggioranza della ricchezza sociale sulle spalle di tutti gli altri. E che ora ha tremenda paura di non vedere la democrazia elettorale incapace di assicurare quel consenso finora ottenuto senza patemi, e si adopera per restringerne le sue declinazioni meno “sostenibili”.
Proseguendo su questa strada si arriva ad un completo e ulteriore distaccamento delle istituzioni dalla realtà sociale, che è il vero motivo dell’emergere di quello che genericamente viene definito “populismo” senza alcuna sfaccettatura; parafrasando Brecht, torna di moda l’ironico adagio: “Poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”..o quantomeno decidere cosa quel popolo può considerare vero e cosa no! Mentre noi intanto speriamo che, come suggeriva surrettiziamente Sidney Lumet nello splendido monologo contenuto in Quinto Potere, che oltre a denunciare le storture del mondo che ci circonda gli uomini e le donne del nostro mondo provino a mettere in pratica il famoso grido: “Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!”
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