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A Scuola dalla Renzi Cosmetics

150 euro da ridare allo Stato, ansioso probabilmente di girarli a qualche istituzione finanziaria. L’ennesimo sopruso nei confronti di un settore già massacrato da anni e anni di attacchi bipartisan. Una polemica che nasce e si chiude nell’arco di una giornata, con il governo Letta “obbligato” ad una marcia indietro dal neosegretario del PD Renzi. La -velocissima- bagarre sullo stop retroattivo agli scatti di anzianità dei docenti mette a nudo alcuni aspetti che velocemente analizziamo.  

Era una mossa troppo pericolosa, questa, per un governo precarissimo come quello guidato dall’ormai manichino a tempo indeterminato (lui sì) Enrico Letta. Un governo tenuto dalla giacchetta dai suoi maggiorenti, mentre questi si preparano alla prossima contesa elettorale. Esulta la Carrozza, nonostante sappia benissimo il suo ruolo insignificante nella vicenda. Vince Renzi, che essendosi con furbizia pubblicamente esposto subito contro il taglio agli scatti, continua nella sua opera di auto-accreditamento come leader progressista, giovane, cosciente del polso del paese reale.

Lo fa delegittimando e costringendo ai passi indietro quei grigi burocrati insensibili di Letta e Saccomanni; si impone parallelamente come nuovo campione dei diritti civili (vedi parole su Fini-Giovanardi e CIE). Peccato che contemporaneamente nasconda all’opinione pubblica la sua acquiescenza ai dettami di Bruxelles, impersonificata dal Job Act che lo stesso Renzi esporrà a stretto giro di posta al pubblico.

I dati sulla disoccupazione di oggi confermano un trend pluriennale di consolidamento se non crescita della stessa. 41,6 per cento quella giovanile, 12,7 quella generale. Riusciranno le politiche renziane, benedette da Landini, a rimediare a questa situazione? Dubitiamo che se anche dovessero farcela, ci sarebbe da scorgervi qualcosa di positivo. Un apprendistato di tre anni senza alcuna garanzia, come quello paventato dal sindaco di Firenze, offrirebbe sì forza lavoro iper-disciplinata a chi fosse disposto ad assumere, ma formerebbe di fatto una bolla: dato che il reddito dei lavoratori non aumenterebbe, cosi come la loro spesa, data l’incertezza che deriverebbe dalla precaria condizione contrattuale.

Provvedimenti cosmetici insomma, come cosmetiche sono le parole che sentiamo in queste ore: sul ridare centralità alla scuola e all’università, sull’importanza del capitale umano e dei saperi per la crescita della nostra economia e via discorrendo. Si può essere a favore della scuola e dell’università per poi immaginarle solamente al servizio degli interessi e dei profitti di pochi? Non saranno due o tre spennellate di Fard a far sembrare giovane e fresco il viso di una politica sulla scuola in sostanziale continuità con quella degli ultimi 20 anni.

Ma la ritirata di oggi del governo può essere letta anche da un altro punto d’osservazione: come un segno che la presenza pluriennale di conflitti nel mondo della formazione, dalle lotte contro la Moratti a quella Gelmini, spaventa dal mettere in campo meccanismi di attacco ulteriore al settore, o anche di solo di far percepire qualcosa di simile. Si mostra qui un capitale politico costruito in anni di battaglie, che cova latente dentro le scuole e le università, potenzialmente pronto a riesplodere.

Questo non certo grazie all’attività di certi sindacati, che anche oggi hanno effettuato la loro sdentata levata di scudi dopo aver morso per anni i diritti di studenti, docenti e personale amministrativo con le loro finte opposizioni ai decreti che massacravano l’ormai defunto diritto allo studio. Ma grazie allo sforzo che collettivi studenteschi, comitati di docenti e di personale tecnico-amministrativo in lotta hanno messo in campo negli ultimi anni.

Un impulso a continuare il presidio dei luoghi della formazione, ma anche uno stimolo a riportare la capillare organizzazione raggiunta dai movimenti dentro questo settore anche negli altri ambiti di devastazione e saccheggio governativo.

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