Elezioni Pandemiche
Le elezioni comunali e regionali che si terranno il 3-4 ottobre suscitano così poco interesse che a stento varrebbe la pena commentarle, se non fosse che l’incedere della crisi pandemica e delle sue conseguenze sociali pongono il problema di provare a leggere come si modificano gli assetti istituzionali in questa fase transitoria.
Le sfide elettorali che coinvolgono alcune delle grandi città e delle regioni sembrano un campionario di pugili suonati che si reggono a malappena in piedi a vicenda. Se questo evidenzia l’ormai cronico deficit di personale politico del partitismo istituzionale (il ricambio generazionale si fa a colpi di stadi di fresbee), dall’altro lato la sensazione è di assistere ad un “piccolo gioco”, mentre il grande gioco si fa su altri tavoli.
E’ abbastanza chiaro che sul piano nazionale queste elezioni avranno degli effetti molto risicati, se non nulli. Di fatto la Pax Draghiana sembra consolidarsi. Le “anomalie” del sistema parlamentare scaturite sull’onda lunga del 2008 sono quasi totalmente riassorbite, in una dinamica abbastanza peculiare in cui apparentemente per risolvere una crisi ne deve scoppiare un’altra. Il Movimento Cinque Stelle a guida Conte si propone sempre di più come l’area social-democratica del fronte progressista, senza un granchè di mugugni al suo interno. L’asse PD – M5S d’altronde si scalda ai box nella speranza che il vento delle elezioni USA prima e di quelle tedesche adesso possa giungere anche alle nostre latitudini. Hanno poco da festeggiare però, perchè al momento, e probabilmente per lungo tempo, non toccheranno palla, con il pilota automatico inserito, e nei tornanti della crisi il vento cambia direzione ad ogni curva. La posizione sussidiaria delle catene del valore che riveste l’Italia difficilmente cambierà nel breve periodo e si sa che lontano dai cuori dell’economia occidentale le svolte politiche tendono tutte ad assomigliarsi portando con sé nuovi carichi di sfruttamento, devastazione e privatizzazione.
L’altro “cavallo imbizzarrito” del panorama politico istituzionale italiano, cioè Salvini, pare aver subito in pieno il rinculo del sovranismo transnazionale. La guerriglia interna al partito e la sua ostinazione a suonare uno spartito usurato seppure ormai a tutti gli effetti forza di governo lo stanno portando un neanche troppo lento logoramento. Il redde rationem tra il “partito del nord” e l’enturage sovranista si inizia a consumare sulle spalle di Morisi e della sua “Bestia” che per ironia della sorte fa il giro completo. Giorgetti si strofina le mani tra endorsement a Calenda e “Draghi x sempre (anche se la maggioranza è destinata a spaccarsi)”. Non è più tempo di partiti trasversali, di populismo e interclassismo, bisogna sedersi su altri tavoli.
Lo scenario politico è dunque totalmente normalizzato, persino la Meloni sta facendo un’opposizione molto “à la carte”, senza grandi scossoni, godendosi il posto al sole offertole dal suo concorrente nel centrodestra. Le pantomime elettorali sui livelli più bassi dell’amministrazione statuale risentono di questo clima e lo replicano, salvo che tra aumenti delle bollette e delle materie prime, tra sblocco degli sfratti e dei licenziamenti, gli eventi estremi causati dalla crisi climatica, saranno proprio questi livelli del governo ad essere messi più sotto pressione.
La crisi di rappresentanza è pronta a generalizzarsi ancora (anche se apparentemente sembra una noiosa domenica pomeriggio), e su piani più profondi è l’espressione della crisi del governo della riproduzione sociale dentro la pandemia. L’erosione del patto sociale si muove sotterranea tra i posti di lavoro, i banchi frigo e le panchine dei parchetti.
Questo è il tema all’ordine del giorno, più che l’ordinaria amministrazione elettorale. Se i Renzi, i Giorgetti e lo stesso Draghi si permettono di bacchettare Confindustria è perchè stanno dicendo “Lasciate fare a noi”. Il pericolo che la tecnocrazia intravede è quello di un’attivarsi di un conflitto sociale vasto e radicato in punti chiave del paese che potrebbe scavalcare l’intermediazione di corpi intermedi consunti che in qualche grado vanno rilegittimati (si vedano le ultime uscite di Landini).
La ristrutturazione, se sarà possibile, passa da questo, dall’idea di un sacrificio comune per rilanciare il paese, in cui pagheranno solo e principalmente i lavoratori, ed una parte della piccola borghesia incapace di adattarsi alla transizione. L’intensificazione dello sfruttamento e dell’estrattivismo, la digitalizzazione e la riconfigurazione degli assetti della forza lavoro e della sua formazione necessitano il minimo della resistenza possibile in un contesto di fragilità oggettiva.
Questo è il piano su cui si gioca la vera partita politica, ed è talmente esplicito che le maldestre dichiarazioni di politici e compagnia cantante lasciano quasi sorpresi.
D’altronde Draghi è la cosidetta “riserva democratica” che deve portare a casa assolutamente il risultato e dopo di lui chissà…
E’ questo il farsi permanente della crisi pandemica, dell’eccezionalità, della sospensione “democratica”: le sue manifestazioni più prossime sono quelle biopolitiche e di ordine pubblico, ma non sono nè le sole, nè quelle più importanti. I livelli sottostanti del governo dovranno adattarsi ad applicare pedissequamente la transizione e a fare da valvola di sfogo del disagio sociale.
Le conclusioni sono palesi, ma al di là del solito panegirico sull’antistituzionalità, la vera sfida oggi è quella di ricercare una forza collettiva in grado, nell’incasinamento del quadro capitalista, di alludere per lo meno a dei percorsi di liberazione, incardinati nei contesti sociali, ma capaci di cogliere le possibilità di una generalizzazione. Mica è poco, la sfida è grande, ma qualcosa si intravede.
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