Guerra civile “europea” tra premonizione, assuefazione e realtà
A cosa deve prepararsi un abitante di Seine-Saint-Denis o una studentessa dell’Università di Tolbiac dopo il discorso di Macron ieri al Parlamento Europeo? Perché il presidente francese alludeva ad uno scenario fosco per il vecchio continente avendo bene in mente e rivolgendosi ai conflitti di casa propria, provando a tirarne fuori una linea di condotta per le elite di Bruxelles.
Da anni lo spettro della guerra civile percorre l’Esagono su più linee di faglia. Dalla rivolta delle banlieue nel 2005 che, sulle note di IAM e degli Sniper, sferrava un primo, devastante colpo ad una politica dell’assimilazionismo che non aveva mai fatto veramente i conti con il passato coloniale; alla secessione della (delle) ZAD che ha lanciato la sfida allo stato sviluppista; ai progetti indipendentisti nella Francia continentale e d’Oltremare e alle irrisolte questioni nazionali davanti ad una costituzione formale spiccatamente centralista; alla forte radicalità dei movimenti studenteschi e contro la Loi Travail e al potenziale destituente della circolazione delle lotte.
A questa realtà, come abbiamo scritto in passato, si affianca quella dell’operazione parallela del Front National e di Daesh: l’esasperazione e la precipitazione del conflitto interno su basi etniche e religiose, sulla falsariga mediorientale. Un terreno spianato da anni di dibattito ossessivo ed assuefacente sull’identità (e sulla preferenza) nazionale; perimetrato dalla retorica sarkozista che già tredici anni fa identificava una parte della società come della “feccia” da eliminare col “karcher”, ma anche dalle reiterate politiche dello stato d’emergenza di Hollande, che pur agito in funzione di prevenzione del conflitto sociale non è stato in grado di contenerne l’esplosione davanti alla crisi delle forme partitiche storiche occidentali – producendo proprio quella democrazia autoritaria che Macron vorrebbe esorcizzare. L’appello contro “l’egoismo” rivolto da Macron agli altri paesi europei, in particolare quelli del gruppo di Visegrad che dopo la vittoria di Orban sono ancora più legittimati nelle loro politiche ultra-nazionaliste, nascondono il rimosso di una Francia dove l’interesse generale delle banche e dei grandi gruppi industriali rappresentato dal finto nuovismo macroniano è sempre più messo in discussione.
Ed ora l’inquilino dell’Eliseo cerca di mettere le mani avanti e, con un’operazione spericolata, appropriarsi della categoria di guerra civile dal punto di vista del neoliberalismo europeista, in un momento di precipitazione degli equilibri interni ed internazionali. Ma la sua è un’operazione dal sapore quasi borsistico, una premonizione che cerca di incorporare un pezzo di futuro. Da parte sua c’è la necessità di tradurre in legittimazione internazionale il proprio capitale politico, costitutivamente giocato sull’ambiguità tra Parigi e Bruxelles e a sua volta puntellato da una compattezza istituzionale altrove introvabile in Europa. Per rilanciare sul piano interno, così come per avere margini di manovra all’estero. Rispetto ad un ipotetico intervento in Siria, in cui si profilerebbe una rivalità con l’imperialismo della Turchia – che reagisce agitando a sua volta lo spettro della jihad sul suolo d’oltralpe. Non solo nei termini di continuazione della storica ingerenza siglata dall’accordo Sykes-Picot, ma anche della collisione con gli interessi di Erdogan nel Golfo Persico ed in Africa.
Insomma nulla di nuovo sotto il sole. Ma una guerra civile già in atto, e per di più a livello globale – da un lato mistificata nelle forme delle guerre commerciali, dall’altro esplicitata nei teatri del conflitto siriano e delle sue ramificazioni internazionali che tagliano trasversalmente e a piú spicchi fasce popolari, dirigenziali e di movimento. Ed è in base a ciò che occorre ripensare radicalmente categorie, composizione e aspettative dei “movimenti contro la guerra”, e prepararsi alle prossime mosse degli autocrati globali – avvolti in una bandiera blu stellata o meno.
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