Il problema della frontiera
Ad oggi sembra emergere come il principale problema della dimensione capitalista sia di fatto l’assenza di nuove possibilità esplorative ed estrattive, almeno per quanto riguarda il pianeta terra e le sue risorse.
O meglio, ogni esplorazione, ogni nuova risorsa estratta ha delle conseguenze fuori proporzione sull’equilibrio ecologico del pianeta e sulla sopravvivenza nel suo complesso delle specie che lo abitano, compresi gli umani. Di fatto, fino ad ora, il capitalismo ha fondato la sua crescita, le sue mutazioni e la conservazione della sua egemonia sulla possibilità di esplorare nuove frontiere, estrarre nuove risorse, sottomettere altri sistemi di sviluppo, intensificare la valorizzazione del lavoro umano e delle risorse. Si dice “aprire nuovi mercati”. Se il capitalismo è stato premonito dagli esploratori veneziani a passeggio sulla “via della seta”, è stato battezzato sulle spiagge delle Americhe con il sangue degli indigeni e le spade dei conquistatori, si è edificato grazie alla tratta degli schiavi, ha vinto la lotta contro il feudalesimo con l’oro e l’argento estratto dalle miniere latinoamericane, ha tolto sostentamento e possibilità ai contadini inglesi prima e poi europei, recintando le terre comuni, per costringerli ad emigrare e riempire le fabbriche, si è consacrato nel vecchio west e si è raccontato nell’esotismo e nell’orientalismo che ha guidato le colonizzazioni, se per ultimo si è cibato dei cadaveri del fu blocco socialista, oggi che è veramente globale, che è giunto a una vittoria apparentemente senza appello, beh, proprio questo è il momento in cui il capitalismo è più fragile.
Allo stesso tempo le forze che si oppongono storicamente a questo sistema di sviluppo sono oggi molto deboli, frammentate e disperse e questo non è un caso. Sebbene la dialettica della lotta di classe sia tutt’altro che esaurita, lo sforzo del comando capitalista è tutto indirizzato e ripiegato sul tentativo di evitare la nascita di nuovi soggetti storici, di nuove alleanze e conflittualità che alludano ad un mondo diverso, nella folle speranza che altri salti tecnologici permettano di mantenere il sistema in piedi. Il “cuore di tenebra” del capitalismo si è sempre accompagnato, nel suo presunto spirito razionalistico, alla fede cieca nella tecnica. E d’altronde senza le innovazioni nel settore nautico non sarebbe stata possibile l’esplorazione delle Americhe e viceversa, senza gli ori e gli argenti saccheggiati dal nuovo continente non si sarebbe dato lo sviluppo delle manifatture in Europa.
Dunque un’ulteriore frontiera, quella dello sviluppo tecnologico senza limiti, che avrebbe dovuto di per sé emancipare l’umanità, porla al di sopra della natura matrigna. In realtà, gli esiti di questa religione, che oggi vediamo palesi, sono stati ben differenti. E’ necessario sottolineare, a scanso di equivoci che qui non si considera la tecnologia di per sé e tanto meno la scienza come l’origine di tutti i mali, ma che piuttosto l’assunzione di questa a religione, l’orientamento politico che le viene continuamente dato e la prevalenza di questa sulle ragioni della natura e della società ci stanno, neanche troppo lentamente, conducendo al disastro. Sì, perché ogni salto tecnologico, dentro questo modello di sviluppo, è una chiave per aprire nuove frontiere di sfruttamento “estensivo” o “intensivo” che sia. Estensivo perché nuove tecnologie hanno permesso nuove esplorazioni, nuove colonizzazioni, nuove rapine. Ma anche intensivo poiché nuove macchine, nuove tecniche significano una maggiore messa al lavoro, un maggiore sfruttamento dei territori e delle risorse, un maggior controllo e disciplinamento al consumo, una maggiore, anche qui, sperando che ci si possa perdonare il paragone, colonizzazione della sfera della riproduzione sociale umana. Ora, tanto le frontiere estensive, quanto quelle intensive non si possono espandere all’infinito al dato livello di sviluppo tecnologico in cui siamo. Hanno dei limiti evidenti che stanno nella rottura dell’equilibrio ecologico su cui si basa la sopravvivenza per quanto riguarda l’estensività, e nel livello di “sopportabilità” del ricatto salute – lavoro per quanto riguarda l’intensività (oltre al fatto che una forza lavoro troppo debilitata, ammalata e frammentata nel suo intimo è al limite dell’improduttività). E’ abbastanza chiaro tra l’altro che la maggior parte delle invenzioni dell’ultimo mezzo secolo si sono orientate proprio sulle frontiere “intensive” dello sfruttamento e sul cercare di recuperare valore dalla riproduzione sociale. Il prevalere dell’intensivo sull’estensivo è dato proprio dall’assenza di ulteriori “territori vergini”, assenza che sta determinando anche la rottura del patto sociale su cui si sono basate le esplorazioni e le colonizzazioni, cioè il, tutto sommato significativo, ritorno in termini di benessere per la classi subalterne europee e poi statunitensi. Le condizioni di guerra permanente in cui versano alcune aree del Medio Oriente e dell’Africa sono la più terribile e lancinante dimostrazione di quali possano essere gli esiti dell’intensività dell’estrazione e dello sfruttamento e di quanto il capitale sia disposto a “barbarizzare” alcune aree del pianeta pur di tenere in piedi i propri interessi (in via definitiva la strategia del “kaos controllato” statunitense). La finanza, il debito, similarmente, sono meccanismi oggi prevalenti, perchè permettono una maggiore “intensità” della valorizzazione, salvo poi provocare disastri ogni qual volta ci si rende conto che questa valorizzazione è articolata su basi produttive insignificanti. Alla luce di ciò questo sistema è “prigioniero” dei suoi stessi limiti. Prigioniero dell’illusione di un destino manifesto inciso nelle pietre dei comandamenti della tecnoscienza.
Anche per questo motivo ci troviamo di fronte ad un accentramento della ricchezza senza precedenti: se il mondo si fa sempre più piccolo, le risorse sempre più scarse il capitalista per sopravvivere dentro la competizione deve naturalmente estrarre il maggiore valore possibile dal basso (fino al punto di mettere a rischio la tenuta del sistema) e scalzare più concorrenti possibili. Monopoli e oligopoli distopici e impensabili fino a qualche decade fa affollano la nostra quotidianità di consumo. Nella mitologia greca esiste una figura che rende bene l’idea di ciò che è diventato (ma in sostanza è sempre stato) il capitalismo: Erisittone, re di Tessaglia, che dopo averne combinata d’ogni (tra cui l’abbattimento di un bosco sacro a Demetra per costruirsi una sala da pranzo, per dire), finisce per autodivorarsi al fine di saziare la propria famelicità. Qualcuno direbbe: “Ben venga che i padroni si divorino tra loro!”, il problema è che le loro guerre si traspongono in uno scontro tra poveri per le briciole e che per divorarsi rischiano di trascinare con sé l’intera umanità e il pianeta. In effetti se si guarda alle dinamiche di scontro intra-capitalistiche (certo, quelle geopolitiche, ma anche ad esempio quelle tra il “vecchio” complesso industrial-militare e la gig-economy, quello tra il petrolio e il carbone da un lato e la green economy dall’altro) queste si riflettono spesso nelle dinamiche di classe (probabilmente la pandemia in corso potrebbe sconvolgere almeno di un po’ questi assetti). Le piccole patrie, i nazionalismi, i discorsi sui confini tutto sommato cos’altro sono se non delle risposte scomposte alla dinamica della globalizzazione marcescente?
E’ evidente che per il comando capitalista il dilemma della frontiera è quasi impossibile da risolvere. Le fantasiose speculazioni sui viaggi spaziali e colonie in remoti pianeti abitabili sono il massimo di orizzonte che le narrazioni riescono a produrre, e possono suscitare al limite qualche sorriso divertito. Ma ciò non vuol dire che il capitalismo si metterà da parte da solo, lasciando il passo al mondo nuovo, più probabilmente proverà a costringerci fino alla fine nel suo abbraccio mortale.
E però il problema della frontiera non è un problema solo capitalistico. Tocca seppellire la tensione romantica ad esplorare lo sconosciuto? Bisogna finirla con la necessità illuministica del conoscere? E’ evidente che non può essere così, che non si può essere così netti, che l’essere umano ha bisogno di un orizzonte verso cui tendere e che in sua assenza a prevalere sono epoche di disillusione, frustrazione, scollamento sociale, individualismo e possibile barbarie. Per costruire un mondo diverso quindi siamo chiamati ad immaginare nuove frontiere da esplorare fuori e dentro di noi, che prevedano la convivenza, e perché no, la simbiosi tra uomo e natura, l’uguaglianza e la giustizia sociale come bussole su cui orientare il viaggio.
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