Jobs Act: il modello tedesco della povertà
Quando i media mainstream arrivano a dire certe cose, spesso significa che l’elefante nella stanza è diventato così ingombrante che neanche loro possono continuare a far finta di niente (La Stampa, “Il Jobs Act, l’illusione tedesca e altri miti da sfatare“).
A dieci anni dalle rifome Hartz del mercato del lavoro (2003/2005), volute dal governo Schröder, si possono vedere gli effetti concreti del celebrato (a destra, a sinistra e pure da Landini) “modello tedesco”. La disoccupazione è diminuita, ma solo per far aumentare i lavori part-time, precari e sottopagati. Di fatto hanno spezzettato il monte ore di lavoro necessario in tanti “minijobs” pagati 450€ al mese, con una forte pressione (tramite l’uso ricattatorio degli ammortizzatori sociali) ad accettare qualsiasi lavoro, aumentando la concorrenza tra lavoratori. Quindi ad una fascia di lavoratori tutelati e con salari relativamente alti (quelli a cui pensa Landini e che ci vendono politici e media) fanno da contraltare 7,4 milioni di workingpoor continuamente sfruttati e sotto ricatto. Tutto ciò ha prodotto una situazione in cui il salario reale tedesco è ai livelli degli anni ’90 e un’economia in cui la ricchezza viene progressivamente redistribuita dal lavoro al grande capitale (e dalle piccole e medie imprese alle grandi imprese esportatrici).
Matteo Renzi non nasconde che il Jobs Act si ispira a questo modello. D’altronde le carte sono in regola: per i giovani prevede stage, lavoro volontario e contratti temporanei, in ossequiosa attesa di ottenere, non si sa quando, un contratto a tempo indeterminato. Ma se il modello di riferimento è quello tedesco, risulta evidente che questo percorso avrà successo solo per i pochi che, a costo di sgomitare contro i propri simili, riusciranno ad essere integrati in un mercato del lavoro di fascia alta. Per tutti gli altri il destino sarà quello della precarietà e della miseria a lungo termine. Tuttavia la versione italica prevede anche l’attacco all’articolo 18. Ovviamente per Renzi si tratta solo di un dibattito ideologico (Il sole 24 ore, 01/09/14), non si capisce, dunque, come mai ci tenga tanto. La realtà è che si tratta di una riforma dei rapporti di lavoro ancora più virulenta di quella fatta a suo tempo in Germania, tant’è che un rappresentante del sindacato tedesco Ig Metal (Il Fatto Quotidiano, 15/10/14) ritiene l’abolizione dell’articolo 18 un attacco ai lavoratori di tutta Europa, per via del probabile effetto domino anche sui diritti e sui salari dei lavoratori tedeschi.
Bisogna essere sinceri: in Italia il Jobs Act non sarà che la formalizzazione di una situazione con la quale siamo abituati a convivere oramai da decenni. Non c’è da stupirsi che gran parte dei giovani non percepiscano l’approvazione di questa riforma come un peggioramento delle proprie condizioni di vita. Semmai, sopraffatti dalla parlantina del Mr. Bean fiorentino, potrebbero pensare che peggio di così non possa andare. D’altronde quanti di quelli che oggi hanno meno di 40 anni si sono mai cullati nell’illusione di avere nel loro futuro un reddito dignitoso, costante e garantito?
Tuttavia nella realtà quotidiana delle nostre vite è possibile incontrare forme (perlopiù individuali) di resistenza, rigidità e sottrazione. A prescindere dal fatto che l’opposizione al Jobs Act possa rivelarsi un catalizzatore sufficiente, il problema da porci è come rintracciare e far emergere in forme collettive l’indisponibilità a vivere continuamente sotto ricatto e lavorare in forme gratuite o sottopagate.
Continuare ad accettare che politici e grandi imprenditori decidano quanti sacrifici dobbiamo fare noi non ci porterà miracolosamente fuori dalla crisi; continuare ad accettare lavori sottopagati o volontari (per fare curriculum) non ci consentirà di accedere a maggiori garanzie, perché stiamo semplicemente dimostrando che siamo pronti a chinare la testa e che ci sarà sempre qualcuno disposto a farlo più di noi; accettare, subire, rassegnarsi non ci costruirà un futuro migliore, semplicemente perchè permetterà a chi ci sfrutta adesso di continuare a farlo in futuro.
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