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L’attesa di Tsipras

La trattativa del governo Tsipras con la Germania/Troika e la sua momentanea soluzione/sospensione, così come gli effetti generali delle elezioni greche, sollevano interrogativi e aspettative: può la formazione del nuovo esecutivo incarnare una svolta, sia pur parziale, alle sfide che le politiche di austerity hanno posto alle classi subalterne di Grecia ed Europa? Può portare una contraddizione in seno alle istituzioni internazionali, imponendo marce indietro ai potentati finanziari? Può – soprattutto – costituire una novità tale da modificare in meglio le vite di milioni di greci?

Scheuble ha ottenuto l’assenso del parlamento tedesco agli accordi affermando che il governo di Syriza “ha accettato tutto”. È un giudizio che andrà a rinsaldare lo scetticismo di chi, già nelle prime ore della trattativa, ha parlato (senza grande seguito, a dire il vero) di “tradimento” del nuovo esecutivo. Quest’ultimo aveva promesso, se non la cancellazione, almeno una rinegoziazione del debito; ciò che l’Europa ha concesso, invece, è la proroga di quattro mesi degli aiuti finanziari (cui si aggiungono i flussi indiretti mossi da Draghi) in cambio dell’assicurazione circa riforme che permettano di far fronte al pagamento per intero del maxi-debito estero (7 mld all’Eurotower già in estate) e al risanamento tendenziale di quello interno.

Tsipras e Varoufakis hanno annunciato che le riforme saranno declinate in termini di lotta all’evasione fiscale e alla corruzione interna, e hanno presentato in parlamento una prima proposta di aiuti statali per 30.000 famiglie. Il dato politico è tuttavia che la tregua con l’Unione è stata stipulata prima ancora di iniziare a combattere (Varoufakis ha anche detto che la Grecia pagherà il debito di 1,5 mld con l’Fmi a marzo) perché il governo vuole, prima di confliggere eventualmente con Berlino e Bruxelles, dimostrare alla propria popolazione (in una lotta contro il tempo) di possedere (1) la volontà e (2) le capacità per portare un’offensiva sul fronte interno da cui si aspetta un decisivo rafforzamento politico: potentati finanziari greci, grandi evasori, corruzione, forze di polizia, fascisti.

I movimenti, a loro volta in posizione di attesa, aspettano, e si aspettano segnali concreti, anche verso un’estensione dei diritti sociali (a partire dai migranti) e tentano di pungolare l’esecutivo là dove possono (si pensi agli scontri del 21 febbraio davanti al campo di detenzione per migranti di Amygdaleza, che Tsipras aveva promesso di chiudere). La decisione “dilatoria” di Syriza rispetto alle rivendicazioni europee, tuttavia, procede anche da valutazione internazionali. Lo scoccare dei quattro mesi coinciderà con i risultati delle elezioni locali in Spagna (24 maggio) in cui è possibile un’affermazione di Podemos, altra formazione ostile alla Troika e alle misure di austerity. Proprio per questo il governo spagnolo di Rajoy sta cercando in ogni modo di radicalizzare il fronte europeo contro Atene. Se Rajoy perdesse, tuttavia, Germania e Commissione Europea si troverebbero di fronte un nuovo contesto nazionale (non ancora un governo) attraversato da una esplicita volontà popolare di rompere con la Troika. La speranza di Syriza è che ciò possa essere letto come la minaccia di una reazione a catena o di un contagio.

In questa situazione di parziale stallo le aspettative crescono o si frantumano, si cristallizzano peana salvifici o, all’opposto, maledizioni e scrollate di spalle che descrivono le diverse appartenenze ideologiche, anche sul piano internazionale. Eppure sarebbe possibile leggere la situazione greca secondo griglie concettuali non pregiudiziali, sapendo anche distinguere i diversi piani o livelli da cui può seguire un giudizio politico (e un’analisi dinamica, situata sul piano dei rapporti) su quelle che appaiono le strategie, e soprattutto le prospettive, dell’azione governativa greca.

Un primo piano, o livello, è quello del significato politico del voto greco. Il supporto che Syriza ha raccolto in Grecia è un fatto significativo, perché non mostra soltanto l’estensione di una “volontà” popolare di farla finita con il commissariamento e le sue logiche predatorie, ma anche che la delega elettorale continua ad apparire uno strumento politico utilizzabile (almeno in certi frangenti storici) a una larghissima fetta delle masse sfruttate. Sebbene sia vissuto con scetticismo e tendenziale disillusione, e sia affiancato da un altrettanto frequente ricorso all’astensionismo di massa, il voto non subisce, quale strumento cardine della democrazia liberale, la crisi “definitiva” che molti avevano profetizzato, nonostante la profonda e innegabile crisi delle forme di rappresentanza cui è associato.

Un secondo piano è quello delle conseguenze. Il voto greco insinua una contraddizione concreta nel quadro europeo. L’apparato istituzionale contemporaneo non è un moloch, con buona pace dell’ufficio semplificazione affari complessi che è sempre, in questi casi, in azione. Molto peggio: è un piano mobile fatto di mutazioni e riassestamenti, pesi e contrappesi, e soprattutto della necessità/capacità di comprendere (in senso tanto concettuale quanto dinamico, politico) le esigenze che maturano contro di esso, tramutandole in fattori (a) di accumulazione e (b) innovazione nella scienza del controllo. Il rompicapo della sfida al capitalismo è, da sempre, che il capitalismo vive di contraddizioni, se ne nutre. Dalla presa d’atto dell’effetto politico-istituzionale non segue quindi, meccanicamente, l’aspettativa di una rottura degli equilibri di governance – né in Grecia, né in Europa.

“La vittoria elettorale non basta” aveva dichiarato Tsipras prima delle elezioni. L’esecutivo si aspetta di essere sostenuto dai movimenti, nel momento in cui tenterà (se ciò effettivamente accadrà) di attaccare i potentati della penisola ellenica. Eppure un limite è la diversa considerazione della crisi che l’esecutivo Tsipras sembra far propria, rispetto a gran parte dei soggetti maturati nelle lotte di questi ultimi anni. “Crisi” non sembra essere un fenomeno storico di media/lunga durata, le cui radici si situano in un’obiettività aritmetica che soltanto un manipolo di tecnocrati può decifrare, e di cui una tecnocrazia di sinistra potrebbe trovare la chiave – magari ispirata da preoccupazioni morali.

I movimenti di questi anni sono cresciuti sul rafforzamento della consapevolezza che la crisi è un’ideologia. L’aritmetica finanziaria dà a sé le sue regole, producendo nell’orizzonte degli interessi di classe i suoi assiomi. L’ideologia di crisi è una prammatica per l’accumulazione e il controllo politico in una fase dello sviluppo capitalistico; ciò che spiega perché, sebbene “in crisi”, il capitalismo come modello di produzione e regolazione dei rapporti non sia assolutamente “in crisi”. Il debito culturale che Syriza ha con i processi di soggettivazione attivati dai movimenti è il suo riconoscimento che le pretese della Troika non nascono da elementi obiettivi, ma da soggettivi disegni di profitto. La distanza che Varoufakis segna tra sé e la variegata soggettività che attraversa i movimenti sta nell’idea di un’uscita dall’attuale “condizione” che separi politicamente i tratti “abominevoli” del capitalismo finanziario neoliberale dalle sue radici “produttive” (da cui le immancabili, sfinenti, ennemillesime litanie di sinistre sempre più arretrate circa la necessità di un “nuovo – a ridaje! – keynesismo”).

Il piano della crisi è il piano del dominio. Le manovre speculative contro la borsa ateniese sono il coltello che Washington e Francoforte affondano nel cuore greco quale estenuante, terroristico segnale di esautoramento della “volontà elettorale” di una popolazione tenuta al guinzaglio. Se i capitalisti non hanno timore delle percentuali elettorali, in ultima istanza, è perché con la fame, la catastrofe sociale e la disperazione possono ribaltarli. Con questa consapevolezza Alba Dorata sta oggi, osservatore lugubre, alla finestra. È quindi più che stucchevole chiedersi in queste settimane quanto Tsipras sia “buono” o “giusto”, “bravo” o “capace”; il problema è quanto un esecutivo fondato sulla delega elettorale possa oggi, all’altezza di questi tempi, essere forte.

Il dato elettorale brilla di una diversa luce se analizzato come espressione di una tendenza sociale effettiva, verbalizzata in questa tra le diverse forme possibili, o come elemento di un processo giuridico che possa di attribuire a un programma politico un potere reale. E allora? Facciamo le Cassandre? Diviniamo profezie? Dispensiamo indifferenza? No. Tutto ciò che si agita sotto il cielo, anche sulla scheda e nell’urna, è elemento del multiforme scontro in atto. Tuttavia, non confondiamo i piani del termometro politico, della contraddizione istituzionale, o degli effetti che tali contraddizioni possono avere sulle piazze, e viceversa (anche in rapporto alle schede e alle urne), con il piano della tenuta complessiva dell’apparato di governance che ci sovrasta.

C’è di più. Essenziale ci sembra non confondere gli sguardi che su questi piani vanno a posarsi. Perché noi, che scriviamo, non siamo l’elettorato né il popolo, le istituzioni né i movimenti; non siamo la classe, né la sua ideologia. Siamo la soggettività che tenta di organizzarsi per confliggere con ciò che permette, sul terreno dell’estrazione del valore, la riproduzione di questo stato di cose. Il nostro punto di vista è situato in modo chiaro, il nostro sguardo abituato a non confondere i processi in atto con i nostri progetti. La società greca e i movimenti esprimeranno, con il tempo, sull’azione del governo il loro giudizio. Noi cerchiamo di comprendere ciò che accade nel sistema istituzionale quale dispositivo di irradiazione del dominio capitalista, ben sapendo che esso nasce anche sulle strade su cui siamo militanti, e che queste ultime – contrariamente ai palazzi – vivono e si arricchiscono di tutto il reale: anche quello che nei palazzi trova ogni volta “comprensione” nella scienza del governo di questo esistente.

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